Le Contes di Hoffmann

Un’ottima occasione, sabato 29 novembre, d’immersione nella sobria ospitalità delle dolci colline marchigiane ci è stata offerta dai gustosissimi "Racconti di Hoffmann" che il teatro Pergolesi ha allestito con la regia di Fréderic Roéls e la direzione musicale di Christian Capocaccia. Com’è noto, la scelta di inserire quest’opera in cartellone è sempre un atto di coraggio, quanto meno per due motivi, in scala decrescente di….attendibilità.

Primo ed indiscutibile, il fatto che ne esiste un’infinità di versioni, con l’ovvia conseguenza di doversi dividere tra le ragioni della filologia e quelle, altrettanto degne, dello spettacolo. Risultato è che ogni versione potrebbe essere quella giusta, se per essa si voglia intendere il rispetto della volontà dell’autore. Il secondo è che egli, purtroppo, morì improvvisamente qualche mese prima del debutto e, pertanto, l’opera andò in scena postuma, il 10 febbraio 1881, peraltro con enorme successo di pubblico, ma circondata da una non invidiabile aura di quella cosa da cui a Napoli ben si è soliti guardarsi.

Qual è, allora, la versione scelta dall’attento regista Roéls? Com’è noto, tre sono le fanciulle di cui il povero poeta Hoffmann cade perdutamente innamorato, che, poi, in definitiva, sono tutte espressione di un’unica donna, che nell’opera si chiama Stella, ma che altri non è che l’eterna incarnazione del femminino, etereo e, perciò, irraggiungibile. A tale riguardo, giusta e condivisibile ci è parsa la decisione di invertire, rispetto alla maggior parte delle ultime versioni viste, l’ordine delle loro apparizioni: Olimpia, il colpo di fulmine, è e rimane la prima; Giulietta, l’amore fisico e carnale, visto come completamento del primo, viene collocata al secondo atto; la terza, Antonia, l’amore maturo, all’ultimo, che rappresenta l’amore finalmente consapevole e stabile. Secondo Roéls, però, proprio per questo, è quello che riesce più difficile vivere, perchè è il preludio alla morte, che ne impedisce, pertanto, il godimento.

E la morte, va detto, è anche l’onnipresente protagonista dell’opera, insieme all’azione luciferina resa dai vari personaggi che, via via, si susseguono: Lindorf, Coppelius, il Dottor Miracle. Dappertutto, evidenti incarnazioni di satana, che in vari modi, provocano sempre la morte delle tre fanciulle inanemente amate dal povero Hoffmann. Lo scenografo riesce ad esprimere pienamente il pensiero del regista, presentando, con varie coloriture e luci diverse in ogni atto, un contenitore a forma di cubo di grandi dimensioni che rappresenta il grande scrigno in cui il poeta, con in mano sempre una chiave, cerca disperatamente il suo ideale di donna, colà auspicabilmente racchiuso, ricevendone sempre delusione. Con ovvi risparmi, dati i tempi, non c’è che dire, il risultato è pienamente raggiunto: l’imprinting luciferino ed, allo stesso tempo, un pò burlesco dell’opera è stato subito percepito ed il pubblico ha vivamente apprezzato.

Non dimentichiamo che siamo nella Parigi di fine Ottocento, c’è la “bel èpoque”, Offenbach era famoso ed amato, oltre che per la sua valentia compositiva, anche per la sue bizzarrie e le sue irriverenze verso il perbenismo borghese, per cui è ovvio che l’opera sia lasciata oscillare tra i due estremi.

La parte musicale esige la solita premessa ogni qualvolta si parli del teatro Pergolesi. L’acustica di questo bellissimo esempio di architettura neoclassica, si sa, è molto particolare, tanto da essere stata, negli anni ottanta, oggetto, addirittura, di alcune tesi di laurea.

Essa esige, perciò, un’estrema attenzione da parte del direttore nel calibrare i piani sonori, pena l’alterazione irrimediabile della timbrica, nonché l’attentato alle corde vocali dei cantanti, che si vedrebbero costretti a pericolose e dannosissime forzature. Tra questi perigli si è degnamente dibattuto il giovanissimo Capocaccia, alla guida dell’orchestra dei Pomeriggi musicali di Milano, che lo ha seguito bene, ed il coro (Circuito lirico lombardo), decisamente lodevole.

Una parola a parte per i cantanti. Una nota di encomio per il baritono Abramo Rosalen, con dei bassi poderosi e con un meraviglioso timbro alla Samuel Ramey, sicuro nella parte ed espressivo quanto basta per evitare prevedibili gigionerie dei quattro personaggi interpretati.

Tutti largamente positivi gli altri, tra cui il tenore, Michel Spadacini, potente e di grande impatto scenico, ma con voce bisognosa di coloriture, che nel tempo, si spera, verranno. Da ultimo, che dire? Pubblico contento, anche troppo, a giudicare dai troppo facili e melensi applausi ad ogni acuto, fastidiosi e deconcentranti.

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