Telemedicina: abbiamo bisogno di algoritmi o di dottori?

La Telemedicina, argomento trattato più volte dalla SI-IES, viene diffusa maggiormente grazie al Covid-19. Ma è proprio questa la medicina che vogliamo? Tenderemo a fidarci più di un algoritmo che del nostro medico?

Forse di primo acchito, con in mente la possibilità di azzerare gli errori in sanità, tenderemo a rispondere di sì.

In Italia nel 2020 qualche forma di telemedicina è stata implementata da molte cliniche e centri medici. È il caso, per esempio, del Centro Privato Santagostino che ha sviluppato un’intera divisione dedicata ai videoconsulti. Questo servizio è stato lanciato per il monitoraggio dei pazienti Covid-19 e poi si è poi sviluppato indipendentemente. Il videoconsulto non sostituisce la visita “di persona” ma è uno strumento iniziale di orientamento.

In USA il confine tra video consulto e “visita vera e propria” è molto più sottile. Giganti come American Well e Doxi.me hanno costruito il loro modello di business intorno all’idea della migliore efficienza della medicina online rispetto a quella fisica.

Perché perdere tempo nel traffico, a trovare parcheggio, in sala d’attesa per una visita, che spesso si rivela sbrigativa e inconcludente, quando puoi ottenere una visita online nell’ora che preferisci, direttamente da casa, risparmiando pure, con uno specialista con tante recensioni? Perché inquinare con mezzi e spostamenti?

Questa proposizione di valore funziona ancora di più se la visita online si arricchisce di strumenti e dispositivi che possono monitorare lo stato di salute e condividerli con il medico in tempo reale.

È esattamente questo quello che fanno le aziende high tech di telemedicina. Attraverso dispositivi, app per il monitoraggio, sistemi di video-consultazione trasformano il setting sanitario tradizionale, in un nuovo tipo di prestazione medica digitale e “da remoto”.

In Italia non mancano esempi di questo tipo con una differenza sostanziale: la prudenza è un tratto distintivo, fondamentale. Si tratta di un problema di normativa. Non di tecnologia.

 Abbiamo bisogno di algoritmi o di dottori?

La risposta di Koshla era lapalissiana: “abbiamo bisogno di algoritmi. I dottori possono sbagliare. Gli algoritmi hanno meno probabilità di errore”. In un’altra provocazione, di qualche mese fa, The Economist raccontava un futuro ipotetico in cui il Nobel della Medicina del 2036 verrebbe vinto da un programma di intelligenza artificiale che grazie ad un software da lui stesso realizzato sarebbe riuscito a debellare l’antibiotico-resistenza.

La tecnologia si sta evidentemente muovendo in tale direzione. Lo abbiamo visto durante il Covid-19. La diagnosi di Covid-19 non viene formulata tramite una visita, un consulto, una serie di esami e il rimpallo tra il nostro medico e lo specialista. No, la diagnosi è basata sulla positività del tampone. Nessuna visita, nessun riferimento a sintomi, nessun dubbio. Tampone positivo/negativo. Diagnosi binaria. Algoritmo.

Qualche dubbio però è bene averlo. L’approccio algoritmico della medicina è figlio di una cultura scientista che nel corso degli anni ha sempre di più ridimensionato il ruolo del medico. Questa medicina dei dati ha prodotto risultati interessanti, certamente. Ma è contestata non solo dai fautori del “ritorno al passato” ma anche da una parte della comunità scientifica che vede un “rischio sociale” nell’eliminazione del medico in questo futuro sanitario. Il medico è certamente portatore di “potenziali errori”.

La natura umana è imperfetta e limitata per definizione. Ma il medico è anche un punto intermedio che media le pressioni commerciali delle aziende farmaceutiche con la salute del paziente. Chi si farà garante dei diritti dei pazienti in un sistema totalmente digitale, senza più freni all’interesse privato e commerciale delle grandi aziende tecnologiche e farmaceutiche?

 

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