Verso il "Diritto Amministrativo Digitale"

Verso il "Diritto Amministrativo Digitale"

Prof. Avv. Stefano Tarullo

Docente di Diritto amministrativo

all’Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli

 

I tempi appaiono maturi per iniziare a parlare di un «diritto amministrativo digitale». È oramai largamente percepito l’impatto della digitalizzazione sui procedimenti amministrativi. In questo campo, il sistema normativo si propone il fine di fluidificare l’acquisizione al patrimonio conoscitivo pubblico di dati, fatti, informazioni ed interessi necessari per assumere presto e bene le decisioni. La recente novellazione del codice dell’amministrazione digitale operata con il D.Lgs. n. 217/2017, per quanto al momento solo «sulla carta», ha determinato ulteriori e significativi avanzamenti che non potranno essere ignorati nei passaggi successivi. Per restare agli aspetti generali, è fondamentale che l’attuale testo del CAD preveda: a) il diritto all’uso delle tecnologie da parte degli amministrati nei rapporti con gli enti pubblici (art. 3); il che avviene secondo criteri di accessibilità ed efficacia che inducono ad immaginare in un futuro prossimo una relazione procedimentale orientata addirittura ad un dialogo procedimentale «in mobilità», condotto cioè attraverso piattaforme di agevole navigabilità anche via smartphonebis

Sennonché, quando si passa dal modo di concepire il procedimento, ormai decisamente proiettato verso una completa digitalizzazione, al modo di concepire il provvedimento, inteso come atto del provvedere sugli interessi oggetto del potere amministrativo, il diritto positivo sembra presentare non lievi elementi di arretratezza. Esso, infatti, risulta ancora incentrato su un’idea di forte dipendenza della decisione dall’intelligenza e dalla capacità valutativa umana, retaggio forse della pregnante componente «politica» che i maestri ci insegnano essere commista alla nozione di discrezionalità amministrativa. L’inconveniente di questa impostazione è a tutti noto: per quanto ad ogni livello del sistema si introducano principi e regole volti a contenere la discrezionalità ed a consentirne il sindacato giurisdizionale (le c.d. figure sintomatiche dell’eccesso di potere sono il più manifesto prodotto giuridico di questo incessante sforzo teorico e giurisprudenziale), la scelta decisionale intesa come pura risultante dell’intelletto umano applicata alla graduazione degli interessi (la «ponderazione comparativa» di gianniniana memoria) manifesterà sempre una elevata componente di relatività, soggettività e variabilità da individuo ad individuo.

In questo quadro, la legislazione appare poco incline ad ammettere una metodologia informatica di supporto o di sostituzione alla capacità valutativa dell’uomo; essa, infatti, postulerebbe che il funzionario della p.a. si limitasse ad immettere nei sistemi di intelligenza artificiale (AI) l’insieme dei criteri, parametri e percorsi decisionali da seguire per produrre – attraverso algoritmi – le migliori determinazioni provvedimentali, consistano queste in atti puntuali, atti pianificatori/programmatori ed atti amministrativi generali. Il concetto di «amministrazione digitale», sotto questo profilo, tarda ad estendersi dal versante dei procedimenti a quello delle decisioni amministrative.

La tematica è di estrema delicatezza su un piano etico prima ancora che giuridico, in quanto è da molti respinta l’idea che l’uomo possa essere «scalzato» dalla macchina nel decidere su situazioni ed interessi superindividuali. Se però si vuole semplificare il discorso spogliandolo dai preconcetti e dai tecnicismi dottrinali e, soprattutto, valorizzare in chiave di evoluzione tecnologica il dettame costituzionale del «buon andamento» dell’amministrazione (art. 97 Cost.), occorre tenere conto di almeno due fattori.

Il primo è che la capacità decisionale umana è limitata dal numero di dati che è possibile acquisire, ricordare ed elaborare. L’istituzione di organi collegiali e (nella più recente fase legislativa) di conferenze di servizi, là dove confluiscono in un unico contesto decisionale punti di vista, competenze ed esperienze diversificati, vale ad arginare il fenomeno solo in minima parte: se è vero che ciascun individuo porta nella decisione collettiva le proprie migliori conoscenze integrandole con quelle altrui, nulla può impedire che sul processo decisionale influiscano negativamente omissioni, opinioni distorte, giudizi sbagliati e, non di rado, veri e propri preconcetti dei singoli componenti del consesso. Nella migliore delle ipotesi, ciascuno vede una parte del problema senza vedere il tutto, e la vede a suo modo. Contano, poi, i rapporti di forza che inevitabilmente e qualche volta inconsapevolmente si sprigionano nella relazione multipolare interna al collegio, di intensità variabile a seconda dell’autorevolezza personale di ciascuno. Chi ha svolto ruoli in organi collegiali più o meno importanti ha diretta esperienza di quanto sia difficile sopravanzare le convinzioni, per quanto errate, dell’ «autorità costituita» di turno.

Un secondo fattore da non trascurare è rappresentato dalla scarsa capacità predittiva dell’essere umano circa possibili ricadute e conseguenze che le sue scelte generano nel medio-lungo periodo. La decisione che oggi sembra la migliore possibile si può rivelare fallimentare considerando un mutamento di prospettiva che è stato ignorato o sottostimato (in buona fede o dolosamente, come ben può accadere anche nel processo decisionale pubblico). Questo ragionamento vale sulla grande come sulla piccola scala. La crisi finanziaria dell’ultimo decennio, come noto, é figlia delle scelte sconsiderate compiute in precedenza ed accompagnate dalla sistematica demonizzazione delle «Cassandre» di turno. Ma chi di noi non si è mai pentito, una volta nella vita, di una decisione che non avrebbe preso se avesse riflettuto con maggiore attenzione su un evento incombente erroneamente minimizzati?

In una società complessa e soggetta a forti e continui mutamenti, la «tenuta» del provvedimento nel tempo acquista un’importanza molto più spiccata che in passato. L’amministrazione ottocentesca e, in buona parte, anche quella del secolo scorso si muovevano in un contesto di sostanziale durevolezza degli assetti decisionali (la fantasia dei giuristi ha persino creato l’archetipo della concessione «perpetua» nel settore cimiteriale). Viceversa, i provvedimenti amministrativi devono oggi poter reggere all’urto degli interessi che incessantemente emergono dalle frenetiche dinamiche sociali, che mettono continuamente in crisi le soluzioni di cura degli interessi pubblici solo poco prima adottate. Se non vogliamo rinunciare ai principio di affidamento e di stabilità dei provvedimenti e dei rapporti giuridici, occorre che le decisioni delle p.a. siano in grado, oggi più che mai, di dimostrare una certa solidità nel tempo, resistendo agli eventi successivi o quantomeno a quelli che possano essere «predetti» e quindi già integrati nella decisione amministrativa . Non è secondario osservare come già la normativa vigente richieda alla p.a. una capacità di previsione non limitata ai provvedimenti programmatori (secondo la nota concezione del «prevedere per programmare»), ma estesa anche a quelli puntuali: la revoca di precedenti provvedimenti ad efficacia durevole è vietata nel caso di mutamento della situazione di fatto, se questa era prevedibile al momento dell’adozione del provvedimento (art. 21-quinquies L. 241/1990).

I due fenomeni fin qui sommariamente descritti inducono a pensare che la decisione amministrativa, per potersi stabilizzare nel tempo, debba essere prodotta secondo un alto livello di razionalità e lungimiranza. Deve cioè risultare: a) «informata», ossia basata su dati conoscitivi veri e completi, che consentano di guardare alla situazione di fatto e di diritto nella sua interezza rifuggendo da mistificazioni e strumentalizzazioni; b) «predittiva», ossia capace di vedere oltre il tempo dell’immediata produzione dell’effetto giuridico che si intende produrre. Se possiede le caratteristiche della compiuta base informativa e della capacità predittiva, la decisione di una struttura amministrativa sarà razionalmente fondata e perciò durevole nel tempo, accreditando in modo crescente l’affidabilità di chi la adotta.

Alla luce di queste sommarie riflessioni, è agevole rilevare come l’apparato normativo di cui oggi disponiamo non abbia ancora colto le rilevanti potenzialità dell’intelligenza artificiale (AI), cui va riconosciuta (già in atto, ma ancor più in potenza, se si investe in questa idea) l’attitudine a risolvere problemi complessi componendo al meglio gli interessi in gioco, nell’ottica di soluzioni razionali e perciò stesso dotate di elevata accettabilità sociale.

A sostegno di questa convinzione possiamo formulare alcuni esempi forse banali, ma proprio per questo estremamente chiari.

Si pensi ad un cittadino che avanzi un’istanza volta al rilascio di un provvedimento cosiddetto «vincolato», ossia fondato semplicemente sull’esistenza dei presupposti (oggettivi) e requisiti (soggettivi) già preindividuati dalla normativa. In questo caso una AI neppure troppo avanguardistica, semplicemente verificando i dati dichiarati dall’interessato (titolo di studio, abilitazione professionale, assenza di precedenti penali, incompatibilità, ecc.), può stabilire se il provvedimento debba o meno essere rilasciato: è sufficiente interrogare le banche dati interessate. Si potrebbe arrivare a sostenere, con un ragionamento solo apparentemente iperbolico, che il provvedimento ben possa essere emesso direttamente da apposite apparecchiature installate presso gli uffici pubblici (c.d. teoria del distributore automatico) e/o erogato in via telematica presso il domicilio digitale dell’utente, il tutto in tempo reale.

Grossomodo questo schema può adattarsi a tutti i provvedimenti autorizzatori, nei quali – come ci insegnano le più recenti teorie – l’interesse privato (del richiedente) allo svolgimento di un’attività o all’esercizio di un diritto deve essere tendenzialmente soddisfatto salvo che non vi ostino specifici interessi pubblici. L’autorizzazione espressa rilasciata in digitale è da preferire ai meccanismi di semplificazioni procedimentale individuati dalla legislazione degli ultimi anni, quali la SCIA ed il silenzio-assenso (art. 19 L. 241/1990), poiché nulla più dare maggior certezza al cittadino richiedente (ma direi anche al controinteressato che intenda instaurare un contenzioso) di un provvedimento che «esiste», per quanto erogato da un sistema informatico.

In relazione ai provvedimenti concessori il rapporto appare capovolto rispetto all’autorizzazione, nel senso che l’atto amministrativo tende prioritariamente all’interesse pubblico, soddisfacendo gli interessi privati solo se con esso compatibili. Si può forse escludere, nel campo delle concessioni amministrative, un provvedimento ad erogazione «automatizzata», ma certamente il decisore sarà molto aiutato dal sistema di AI posto al suo servizio in fase di valutazione delle opzioni decisorie possibili. Immaginiamo il caso elementare di un cittadino che chieda il rilascio di una concessione demaniale per impiantare un’edicola su pubblica piazza. In questa ipotesi, attraverso un sistema di AI, il Comune competente a decidere potrà facilmente confrontare ed elaborare un insieme di dati per stabilire quale sia in concreto il bene della collettività, ad esempio analizzando la sovrapposizione dell’istanza con analoghi esercizi commerciali presenti nell’area, appurando l’esistenza di sufficienti spazi per il transito e per la sosta, valutando l’impatto complessivo sul transito veicolare, le eventuali varianti urbanistiche in itinere, le esigenze di uso alternativo dell’area non altrimenti soddisfatte, ecc.

Ma è nel campo delle decisioni complesse, destinate cioè a comporre un quadro più vasto e frammentato di interessi pubblici e privati contrapposti mediante procedimenti polifunzionali, che il regime normativo sembra assolutamente ignaro delle potenzialità proprie dei sistemi di AI: si stenta a comprendere, a mio modo di vedere, che in una prospettiva non troppo lontana tali sistemi potranno offrire soluzioni davvero convincenti e rapide a supporto del processo decisionale umano.

Pensiamo al campo della pianificazione urbanistica comunale. In via di estrema semplificazione, tale attività postula che le diverse aree del territorio siano organizzate e ripartite secondo criteri di massimo equilibrio, tenendo conto delle diverse esigenze pubbliche (ospedali, scuole, uffici pubblici, aree a verde, ERP, ecc.) e private; in seno a queste ultime, peraltro, si presentano le  sfaccettate e contrapposte esigenze della residenzialità, della produzione, del commercio, dello svago, della fruizione dei servizi, ecc.

Elaborando una serie di dati preventivamente immessi nel sistema ed impostando i criteri sulla base dei quali si vuole decidere (uno dei quali può consistere nel frazionare percentualmente il territorio tra le varie destinazioni a seconda della composizione demografica della popolazione), il sistema di AI sarà in grado di generare in modo «neutro» le soluzioni più razionali. Ad esempio potrà collocare le aree a verde pubblico in prossimità delle scuole, allo stesso tempo assicurando la massima distanza tra queste aree e quelle a vocazione produttivo-industriale; potrà situare queste ultime in una zona priva di coltivazioni, lontana dalle acque pubbliche e prossima ad altre aree non vocate alla residenzialità (ma ad es., in prospettiva, allo smaltimento e riciclaggio dei rifiuti); potrà collocare l’ospedale in uno snodo agevolmente raggiungibile da tutti i punti della città, anche tenendo conto dell’orografia del territorio, del traffico veicolare e del sistema di mobilità pubblica (treni, autobus, ecc.), anche qui assicurando la massima distanza possibile rispetto all’area industriale, e via dicendo​. L’esempio che precede concerne tutto sommato un insieme di dati «grezzi» che un buon team di urbanisti riuscirebbe a padroneggiare senza difficoltà, ma è evidente che più cresce la complessità delle variabili da integrare nella decisione meno l’essere umano è in grado di governare il flusso informativo, sì da prevenire le omissioni e le disattenzioni. E così, appare più opportuno che sia il sistema a considerare i mutamenti demografici del territorio di riferimento ed il conseguente impatto nei rapporti tra le varie fasce della popolazione. Ne deriverà che serviranno (e verranno previsti in sede pianificatoria) più ospedali se crescerà la popolazione anziana, o al contrario più scuole se nasceranno più bambini, ecc.

Nel tempo, peraltro, aumenterà il numero dei dati a disposizione e delle decisioni già prese, delle quali occorrerà assicurare l’osservanza al fine di preservare la coerenza del sistema. Se questi dati confluiscono man mano nel sistema informatico, per la AI sarà agevole offrire soluzioni valide dettate dall’«autoapprendimento» basato sule soluzioni offerte in casi simili e sulla loro riuscita (c.d. «machine-learning»).

Resta solo da svolgere qualche notazione conclusiva e, visto l’ampio ed inesplorato campo di indagine, necessariamente provvisoria.

Il processo di digitalizzazione rappresenta attualmente la frontiera della «vera» semplificazione amministrativa, quella cioè che taglia trasversalmente i settori e gli istituti per rivoluzionare nel profondo l’organizzazione degli enti pubblici e le relazioni tra questi ed i cittadini. La direttrice di marcia tracciata dal CAD sul terreno procedimentale appare nitida e condivisibile, ma l’operazione di rifinitura dell’apparato legislativo non è certo terminata con la riforma del 2017. Il quadro della disciplina appare ancora timido e provvisorio e, nell’immediato, si avverte la duplice necessità di integrarlo con il GDPR del 2016 e di completarlo con meccanismi di accentramento dei troppi (e scarsamente collegati) data center pubblici. Non sfugge che nel testo vigente è ben presente l’idea della formazione digitale del personale (art. 13), ma la distanza tra parole e fatti è sconfortante: lo svecchiamento del personale amministrativo appare come un processo lento ed ostacolato da remore sociali e sindacali di ogni tipo. Se non si accelera su questo obiettivo ogni perfezionamento normativo sarà relegato ad ozioso esercizio di stile, mentre il Paese non ha certamente più bisogno di «norme-vetrina» da esibire ai partners europei. Non solo: nel breve termine si rischia di vanificare gli sforzi che l’AgiD sta producendo nell’iter di attuazione delle due Agende digitali, italiana ed Europea (art. 14-bis).

Sullo sfondo resta un rilievo centrale: nel perseguire l’obiettivo della digitalizzazione d procedimenti e processi decisionali occorre evitare sbandamenti e, soprattutto, ritrosie economiche. Come si può pensare di progredire, in un campo altamente sfidante come quello dell’amministrazione ad alto tasso tecnologico, «a saldi invariati» così come vorrebbe l’art. 67 del D.Lgs. 217/2017? Al di là dell’ovvia necessità di un ricambio generazionale profondo nella compagine umana, è indispensabile che iol settore pubblico investa sui nuovi pattern di amministrazione digitale e predittiva, sviluppando gli algoritmi che possano surrogare il processo decisionale pubblico (per i provvedimenti vincolati o  a bassa discrezionalità) o coadiuvarlo (per i provvedimenti ad alta discrezionalità amministrativa o tecnico-discrezionali). È del resto evidente che, se resteremo indietro, saremo presto superati da altri Paesi più illuminati e decisamente concorrenziali, alcuni a noi molto vicini come la Francia. Il Libro bianco dell’AgID  «L’Intelligenza Artificiale a servizio del cittadino» presentato nel marzo 2018 è ricco di spunti ed abbraccia decisamente la logica dell’investimento, per quanto il ritorno possa non essere immediato (vi sono 5 milioni di euro per i progetti pilota). Occorre tuttavia ancora più coraggio nell’intuire e guidare gli sviluppi tecnologici utili al «governo degli interessi», se vogliamo perseguire reali obiettivi di giustizia nella politica e nell’amministrazione (cfr. art. 100 Cost.)

Conclusivamente, viene in mente il tagliente giudizio espresso da Albert Lauterbach all’indomani della seconda guerra mondiale, in una situazione globale in cui imperversava tra gli economisti il dibattito sul se e sul come la mano pubblica dovesse guidare i processi socioeconomici: «La miseria in un mondo dalle gigantesche risorse produttive e l’oppressione in un mondo che ha conosciuto forme concrete di libertà sono imputabili oggi all’incapacità e alle colpe di una generazione che ha tutti i mezzi tecnologici per agire più razionalmente» («Economic security and individual freedom», da noi tradotto come «Libertà e pianificazione», Princeton University Press, 1948). Cerchiamo di fare tesoro di queste parole perché la nostra generazione non debba, un domani, sentirsi rivolgere lo stesso rimprovero.

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