Il lavoro ai tempi del coronavirus: risposte a domande mai fatte

La tragedia in cui siamo piombati da pochi giorni merita solo silenzio e rispetto. Qualche suo impatto nel campo del lavoro e del sociale sta però dando delle risposte a domande che non ci eravamo fatti. Questo semplicemente perché il mondo è improvvisamente cambiato, sbattendoci in faccia una realtà che stravolge molti paradigmi consolidati.
Cito qualcuna delle risposte arrivate da sole in questi giorni, relative a domande distrattamente sommerse dal cumulo di pratiche urgenti che fino al 20 febbraio ci illudevamo di dover sbrigare con tutta priorità.
 
La disuguaglianza sociale e il lavoro. Più di qualcuno, con la pop star “Madonna” in testa, sostiene che le disuguaglianze sociali si sono improvvisamente azzerate. Niente di più falso: provate a stare in quarantena in una grande villa di Hollywood come la signora Ciccone – con cui beninteso non ce l’ho, vive solo un altro mondo lei –  oppure in un “basso” alla periferia di Napoli, un monolocale di 30 metri quadri umidi e bui in cui 6 persone sono costrette a condividere spazi, vita quotidiana, angosce e sogni.
Ancora: pensiamo a chi sta passando questo periodo di isolamento con la certezza di avere comunque a fine mese uno straccio di stipendio, rispetto a coloro i quali hanno visto scomparire quel poco che a fatica avevano ottenuto sul lavoro – magari anche in nero –   e ora non sanno come affrontare il domani perché licenziati. Vicenda questa che sta colpendo i più deboli, i più precari: in molte strutture alberghiere, dove evidentemente non c’è più turismo, il personale stabile è in cassa integrazione, quello precario a casa (fino a tempi migliori, che sono ben al di là da venire). 
Consumata questa tragedia, le macerie andranno ricostruite poggiando su regole che riducano questa disparità attraverso nuove politiche attive del lavoro che mettano le persone in condizione di guadagnarsi da vivere attraverso un mestiere utile alla collettività. Si può fare: gli ingenti investimenti che verranno messi in campo già nei prossimi giorni saranno una concreta opportunità in questo senso, se sapremo gestirli in modo diverso dal solito non per arricchire le tasche di pochi eletti. Prendiamo per una volta esempio dalla ricostruzione del nostro dopoguerra, quando qualcosa di simile è accaduto (salvo poi via via disperdersi negli anni del boom economico).
 
Il valore del lavoro. Non se ne abbia a male chi fa di conto, elabora strategie o prepara presentazioni in powerpoint: abbiamo in questi giorni davanti a noi i veri mestieri – tradizionali e nuovi –  che producono concreto valore in una collettività. Dai ricercatori ai data scientist, fino ai medici e ai commessi del supermercato ci siamo improvvisamente accorti che esistono molti lavori determinanti per il nostro presente e per il nostro futuro fino ieri dati per scontato e marginalizzati, sottopagati rispetto allo specifico valore prodotto e spesso oggetto di sfruttamento e di lavoro nero.
L’inevitabile ritorno ai fondamentali civili che ci aspetta dovrà saper sviluppare e remunerare il lavoro per il valore che genera, fuggendo dalle logiche di compensation degli ultimi venti anni e dalle regole che un mercato del lavoro figlio della finanza ci aveva portato.
 
Le tasse. Finora considerate come appannaggio dei lavoratori dipendenti o più ligi, in una società piena di debiti che deve ripartire sarà determinante il contributo di ciascuno, nell’ambito di un sistema più equo di quello attuale. I “furbetti” – che oggi non sono solo tollerati, ma addirittura protetti da certa politica – non ce li potremo più permettere, perché avremo bisogno di ripagare grandi debiti ed insieme di investire in nuove aree – come la sanità, la ricerca, la scuola, la tecnologia – fino a ieri oggetto di tagli ripetuti perché il disavanzo pubblico non permetteva altro. Insomma da domani chi vorrà usufruire dei servizi di sanità pubblica, per fare un esempio di estrema attualità, dovrà aver contribuito in base alle proprie disponibilità al finanziamento di quei servizi. Servono regole ferree, ne va del futuro comune della società civile.  
 
Le riconversioni produttive. Necessità fa virtù, e così stiamo assistendo a fabbriche di tessuti o di componentistica per auto rimaste senza lavoro che producono mascherine sanitarie.  Questa capacità dovrà svilupparsi sempre di più come nuovo paradigma del lavoro, sia per gli imprenditori che per i lavoratori, sapendo che in una economia debole insistere su business poco remunerativi porta a chiudere rapidamente. Esistono al contrario enormi spazi di crescita interna per le riconversioni delle nuove imprese verso settori in cui siamo attualmente dipendenti da pochi “cartelli” esteri. Serve iniziativa, coraggio e flessibilità, doti che non ci sono mai mancate nei momenti del bisogno.  
 
Gli specialismi professionali. Siamo tutti cresciuti nella (giusta) convinzione che l’ampiezza e la profondità delle conoscenze richieste nei tradizionali mestieri non era più sostenibile, e pertanto abbiamo valorizzato (altrettanto giustamente) profili professionali sempre più specialistici capaci di affrontare quella complessità in modo mirato. Ora serve un’altra abilità, quella dell’integrazione e della collaborazione: da soli non si va da nessuna parte, le comunità professionali specialistiche  dovranno  collaborare tutte insieme per arrivare rapidamente a soluzioni nuove che non rincorrano gli eventi ma li precedano o li intercettino; nella stessa direzione, le diverse comunità professionali che compongono una impresa dovranno beneficiare degli apporti specialistici di ciascun professionista – forniti incondizionatamente e con il supporto di network esterni propri della “famiglia professionale” di appartenenza –  per elaborare nuove soluzioni frutto dell’integrazione dei diversi specialismi. È una direzione obbligata perché il tempo – come i recenti fatti drammatici ci insegnano – non lo governiamo noi, e la aperta collaborazione e condivisione di tutte le forze in campo è l’unico modo per affrontare le durissime sfide che abbiamo davanti.    
 
Lo smart working. I dibattiti in materia sono improvvisamente finiti e ormai molti di noi lavorano in modalità “smart” a distanza. Senza nemmeno rivedere processi e tecnologie ci si accorge che funziona, che si può fare senza perdere produttività ma anzi dando più ordine ai processi e alle attività comuni (le riunioni per esempio iniziano puntuali ed hanno uno svolgimento ordinato in cui ci si ascolta e si parla uno per volta). Il futuro passa sicuramente da qui e dovremo investirci molto di più di ieri per avere piattaforme di collaborazione che abilitino l’integrazione delle competenze, lo scambio di informazioni a valore ed una migliore qualità delle relazioni professionali.  
 
La tecnologia. Correlato a quanto appena citato, il progresso della digitalizzazione si è sinora paradossalmente sviluppato più nel mondo dei consumatori finali che nelle strategie d’impresa, spesso restie al cambiamento in quanto i processi e le soluzioni analogiche che c’erano funzionavano. Ma non sarà più così, quei processi e quelle soluzioni vecchie imbarcano troppa acqua per poter attraversare le tempeste che ci aspettano. Rendono le aziende piene di sprechi, lente e concentrate sul breve termine. Innovare su queste dimensioni sarà una necessità, per rendere sostenibile il lavoro in contesti di rapidissima evoluzione in cui le soluzioni digitali diventano non più un “plus” ma una “conditio sine qua non” per sopravvivere e competere.  
 
I diritti dei lavoratori. Ho sentito in questi giorni di lavoratori in smart working che lamentavano la mancata corresponsione del buono pasto. Senza entrare nella (penosa) discussione, ci si dovrà riorientare per una tutela reale di alcuni diritti essenziali dei lavoratori – come quello alla salute, alla qualità del lavoro (qualsiasi esso sia) e alla giusta retribuzione – rivedendo alcune derive che nel tempo hanno preso piede in una società viziata. Una società che non si è finora abbastanza fatta carico – nemmeno lato sindacale – delle nuove generazioni, spesso sfruttate con impieghi precari che sono buoni per le statistiche ma non per la dignità delle persone. È questo un detonatore civile da affrontare subito sapendo che il lavoro non è più quello degli ultimi trent’anni, e che coloro i quali sono rimasti a quelle logiche – e sono tanti –  devono fare un grande passo indietro. Lasciando aria pura per i giovani, spesso più preparati di molti di noi.
La disuguaglianza oggi si misura anche in questo. Sarà necessario avere tutti invalicabili diritti di base e assumerci tutti più doveri rispetto ad oggi. Le imprese saranno le prime a doversi riorganizzare in questo senso, ottimizzando le attività produttive e l’impiego dei singoli senza permettere – come invece troppe volte oggi accade – fenomeni di sottooccupazione di persone valide e con grandi potenziali.  Anche questo fa parte dei diritti di base da garantire a tutti, evitando a un plurilaureato di fare slide 14 ore al giorno per anni.
E al tempo stesso occorrerà rimboccarsi tutti davvero le maniche e mettere le mani in pasta con nuova energia, anche senza – si perdoni il gioco di parole – il buono pasto in smart working. Mai è più attuale di oggi la famosa frase di Kennedy “non chiederti cosa il tuo paese può fare per te, chiediti cosa puoi fare tu per il tuo paese”.   
 
Il valore delle competenze. C’è poco di nuovo qui: non ci saranno sconti per nessuno e si dovrà acquisire una preparazione di avanguardia in tutti i campi. Si deve studiare sodo, migliorare la formazione postscolastica e quella sul campo, e poi aggiornarsi continuamente nel proprio mestiere la cui veloce e continua evoluzione è cosa certa. Abbiamo nuovi strumenti su cui far leva per avere le conoscenze necessarie, usiamoli a fondo. Questo nell’ambito di un nuovo sistema formativo strutturato che è tutto da rilanciare dopo la rilevante dequalificazione subita dall’istruzione scolastica negli ultimi anni.
 
I nuovi mestieri. Se finora al centro di ogni (piccola) discontinuità c’erano solo le regole del mercato del lavoro, drogato da un sistema economico miope e autocentrato, ci siamo improvvisamente trovati ad affrontare inermi le leggi della natura, che si è ribellata senza un perché ad oggi noto. Sarà bene che si coltivino nuove reali attenzioni ecologiche e nuovi mestieri capaci di leggere e curare l’ecosistema in cui viviamo con la necessaria urgenza. Non si tratta più di temi snob alla moda per pochi eletti, ma di un investimento organizzativo che la nostra società dovrà necessariamente affrontare per fermare i disastri compiuti dall’uomo negli ultimi cento anni, i cui effetti sono drammaticamente sotto gli occhi di tutti.         
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Sui temi del lavoro – solo alcuni dei quali qui accennati – la differenza tra il prima e il dopo questa terribile emergenza è molto semplice e drastica: se finora questi temi potevano essere ancora considerati utopie per studiosi e sognatori, da domani saranno centrali nella loro concreta realizzazione per poter ripartire con la speranza di uscire presto dal lungo tunnel in cui siamo entrati
 
Un’ultima cosa: in un paese in cui siamo diventati tutti “allenatori della nazionale”, in cui ognuno sente il bisogno di esprimere le proprie valutazioni su tutto anche fuori dalle righe –  a cominciare dai media, che fanno sempre più politica e meno informazione studiando sapientemente cosa sbattere in prima pagina per attirare clienti e ricavi pubblicitari – sarà il caso che ricominciamo tutti a scendere in campo a giocare, passandoci la palla e ascoltando quello che ci suggerisce chi ha la competenza per allenarci. Ma questa, forse, resterà una utopia.
 
 
Filippo Antilici de Martini di Valle Aperta

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