Dieci condizioni per una ripartenza intelligente

Non è andato tutto bene, e non siamo diventati migliori.
Neppure più tecnologici: il “digital divide” impedisce ancora ad una parte consistente della nostra popolazione l’accesso alle tecnologie informatiche, a causa delle disagiate condizioni economiche e sociali o della collocazione geografica in zone arretrate in termini di qualità delle infrastrutture.
Per tali ragioni, ad esempio, il 25-30% dei ragazzi sono rimasti indietro con la scuola perché non attrezzati tecnologicamente a seguire le lezioni “on line” o non supportati adeguatamente dalle loro famiglie.   
 
Sul versante sociale siamo diventati un po’ impauriti ed asociali, disabituati alla prossimità e alla naturale interazione – senza il filtro web – con comunità diverse da quella che abbiamo creato nella nostra tana reale o virtuale.
 
Con più rabbia in corpo e più cattiveria, come si può cogliere con tutta evidenza dalle parole ostili sempre peggiori che viaggiano sui social (e non solo) senza che nessuno se ne scandalizzi più: così nell’aula parlamentare si arriva persino a dare della “neoterrorista” ad una volontaria rimasta per molti mesi prigioniera di bande armate africane. Comunque la si pensi, è grave.
Sul versante economico e del lavoro siamo nel frattempo diventati tutti più poveri, taluni ben oltre la soglia di quanto socialmente accettabile; l’indebitamento del paese sta crescendo in misura esponenziale ed assai rischiosa perché stiamo finanziando la ripresa con ingenti risorse che prima o poi a qualcuno dovremo restituire. In aggiunta al debito preesistente.
Di conseguenza, se prima una nuova crescita economica era da tutti auspicata con abile demagogia ma poi nei fatti soffocata dalla generale inadeguatezza della classe politica ed industriale, ci troviamo ora obbligati a porla in essere, e pure in fretta. Pena il default.
Lo stato fa giustamente sentire la sua presenza ora, allocando le risorse che può per non lasciare nessuno a piedi; e tutti, ma proprio tutti – pure quelli che protestano a prescindere, che non pagano le tasse o che hanno le sedi in paradisi fiscali – invocano gli aiuti come “diritto” per ripartire. Ma (forse) va bene così, a condizione di restituire quegli aiuti alla collettività sotto qualche forma di redistribuzione di nuova ricchezza. Chi ce la farà ovviamente.   
 
Tutto questo è successo in poco più di due mesi, mentre siamo ancora in mezzo al guado con molte speranze ma nessuna certezza.
E il peggio, l’onda lunga della crisi e della povertà vera, deve ancora venire.
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  1. L’enormità e la rapidità di quanto è successo non ci rende ancora pienamente consapevoli della gravità della situazione, e questa è intanto una prima condizione necessaria per poter ripartire con intelligenza. Dobbiamo essere coscienti che non ci troviamo dentro un film o un videogioco, finito il quale la vita reale riprende come prima, ma che la storia ci sta consegnando una nuova pagina da scrivere con progettualità, responsabilità, lungimiranza e spirito innovativo. Che non sono slogan del bel scrivere, ma pietre miliari su cui ricostruire pezzo per pezzo il futuro nostro e quello dei nostri figli.
  2. Su questa base, dobbiamo anzitutto guardare avanti intercettando le nuove opportunità che emergono dal cambiamento. Dall’e-commerce alla “reinvenzione” di mercati e mestieri prima marginali – come quelli delle biotecnologie, del welfare, della mobilità – esiste un mondo di novità ad alto potenziale che questa recessione ci proporrà. Semplicemente perché da un giorno all’altro le persone hanno messo quei temi al centro delle loro priorità, e lì li lasceranno.
  3. Partendo dalla consapevolezza che i bisogni dei consumatori e i loro comportamenti di acquisto sono cambiati in modo irreversibile, la trasformazione del lavoro e prima ancora delle competenze necessarie a svolgerlo diventano dunque un’altra condizione necessaria per stanare aree inesplorate che improvvisamente ora assumono valore.
  4. Per far questo serve concreta flessibilità di pensiero e di azione, con cui orientare il nostro futuro senza troppo insistere su mestieri logori o che impiegheranno anni per raggiungere nuovi punti di equilibrio. A volte le brutte esperienze aiutano, servono a capire cosa possiamo fare meglio.
Se finora un po’ tutti noi abbiamo fatto quello che sapevamo fare, o quello che ci ha fatto incontrare il percorso di studi e dopo il mercato del lavoro, ora dobbiamo valutare se davvero la continuità è un valore – e può ben darsi che lo sia – oppure se è arrivato il momento di riprogettare il nostro futuro.
  1. L’importante in questa analisi è non dar più nulla per scontato: ogni gesto, azione o consuetudine operativa hanno una componente “automatica” che consideriamo ovvia perché abbiamo sempre fatto così e così fanno tutti. È proprio lì che possono celarsi nuove aree su cui investire, sapendo che sulla pelle di tutti noi rimangono segni indelebili di quanto successo. Sono segni facili da decifrare – se entriamo nella giusta sintonia – perché li portiamo addosso tutti, nessuno escluso: guardando dentro di noi troveremo traccia di quali sono le nostre nuove esigenze, che probabilmente non sono troppo diverse da quelle a cui anche gli altri stanno improvvisamente dando priorità.
  2. Focalizzarci su queste nuove esigenze vuol dire mirare bene ai relativi output più che agli input, finora invece ossessivamente al centro dell’attenzione industriale. Il focus non può più essere ciò che mettiamo dentro un processo per avere un determinato risultato, ma deve diventare il risultato finale di per se e le esigenze che ne sono a fondamento. Da lì occorre certo risalire lungo la catena produttiva sino al famoso input, anche per approssimazioni successive, ma mai perdendo di vista il prodotto/servizio da ottenere.
  3. Tutto questo richiede un reale sviluppo della tecnologia digitale, molto citata e di gran moda ma realtà ancora troppo poco diffusa.
L’improvviso superamento della dimensione “spazio” ha fatto pensare a qualcuno che ci siamo tutti digitalizzati solo perché facciamo le videoconferenze invece delle riunioni o perché lavoriamo da casa invece che andare in ufficio. Ma la digitalizzazione è un’altra cosa, è prima di tutto un modo di pensare, di vivere, di organizzare e di interpretare il lavoro.
Dobbiamo dirci con chiarezza che siamo tutti ancora in un mondo profondamente analogico, dove è cambiato poco: prova ne è che la famosa app “immuni”, con la quale si dovrebbero tracciare i contatti sociali, è stata messa in fondo alle priorità di riapertura e di rilancio. Stiamo ragionando nei fatti ancora con il metro del distanziamento sociale, esattamente come cento anni fa ai tempi dell’influenza spagnola.
  1. Realizzare in concreto le condizioni di ripartenza presuppone una apertura mentale e un pensiero laterale che fino ad ora non abbiamo neppure immaginato. Sono doti che dobbiamo allenare in tutta fretta e con grande determinazione, in quanto non facili da acquisire a causa del tipico spirito conservativo che ci accompagna da sempre.
Modificare tale spirito comporta forzature su noi stessi, ma se è vero che l’uomo si abitua a tutto si deve anche abituare a svincolarsi rapidamente da un mondo che in due mesi è venuto giù. Per salvare ciò che buono c’era e ripensare a ciò che invece non era già buono prima (e non era poco), ovvero a ciò che è diventato improvvisamente inadeguato.
Il difficile sta nel prendere consapevolezza che serve fare questo esercizio con urgenza, distinguendo con lucidità quelle tre diverse categorie concettuali. Una volta fatto siamo già a metà del giusto percorso di ricostruzione.
  1. In questo percorso ognuno deve fare la sua parte e nessuno si deve sentire escluso dal mettersi in gioco. La recessione non diventerà depressione solo se si supera con una solidale integrazione di tutte le forze in campo, ognuna chiamata a dare qualcosa di più. L’interconnessione dei sistemi professionali, anche quando molto diversi tra loro, diventa una leva fondamentale per affrontare a tutto campo questa ripresa, prima con una ampiezza di approccio e di analisi professionale e poi con una profondità di intervento da parte delle più idonee competenze specialistiche.
  2. Tutto questo va fatto con agile semplicità. Il mix di complessità e di burocrazia ci sta paralizzando, c’è una crisi nella crisi ben rappresentata dalla ricostruzione del ponte di Genova: solo derogando a tutte le normative esistenti si è riusciti a portare a compimento l’opera nei tempi previsti. Al contrario, abbiamo visto l’esito fallimentare dei formali bandi Consip sulle mascherine di protezione sanitaria, dove il malaffare e la furbizia di qualche improvvisato imprenditore hanno contribuito a lasciare nel caos il paese.
Ciò vuol dire che la regolamentazione complessa e burocratica della cosa pubblica non è più valida, se mai lo è stata. Questo è un tema più politico, certo, ma siccome i politici ce li mettiamo noi lì, qualche riflessione dobbiamo pur farla.
 
E poi c’è una diffusa “piccola” burocrazia che caratterizza il nostro agire, che possiamo e dobbiamo contrastare con efficacia, fluidificando i meccanismi di funzionamento dei nostri processi. Torniamo qui al “pensiero” digitale: sin quando questo pensiero non sarà realtà dobbiamo essere coscienti che gli ingranaggi per funzionare devono essere complementari tra loro alla perfezione, scorrevoli e mai ridondanti. Soprattutto se devono lavorare in condizioni di stress.
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Dieci condizioni per ripartire che richiedono fiducia, sia in noi stessi che negli altri, convinzione e tenacia.
Andrà tutto bene? Ora dipende da noi.
                                                                                 Filippo Antilici de Martini di Valle Aperta
 
 
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