Il Decreto semplificazioni e le Piattaforme digitali delle p.a.: nuovi scenari per l’Agenda digitale italiana

In prossimità delle ultime festività natalizie (e precisamente nella Gazzetta Ufficiale n. 290 del 14 dicembre 2018) è stato pubblicato il D.L. 14 dicembre 2018 n. 135, c.d. Decreto semplificazioni (per esteso, «Disposizioni urgenti in materia di sostegno e semplificazione per le imprese e per la pubblica amministrazione»). Il testo, soprattutto per via del suo art. 8 intitolato «Piattaforme digitali» (ma anche per via del successivo art. 8-ter in tema di registri distribuiti e smart contract, del quale non possiamo qui occuparci), ha subito destato l’attenzione dei commentatori più attenti ai tema dell’amministrazione digitale e dell’Agenda digitale, tra i quali chi scrive. Sennonché, potendosi immaginare qualche probabile e sostanziale correzione in sede parlamentare, si è ritenuto prudente, prima di esprimere qualsivoglia valutazione, attendere la legge di conversione, intervenuta nel febbraio di quest’anno (legge 11 febbraio 2019 n. 12, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 36 del 12 febbraio 2019).
Nel relativamente più certo contesto normativo in cui oggi ci troviamo e pur consapevoli della spiccata fluidità di esso, vale la pena di spendere qualche considerazione sul richiamato art. 8, se non altro per delineare quale sia l’approccio dell’attuale Esecutivo alla materia e tratteggiare sommariamente lo scenario che ci attende nell’immediato futuro.
Va precisato che l’intitolazione al plurale della disposizione (come detto, «Piattaforme digitali») non è delle più felici: l’art. 8 si occupa quasi esclusivamente di una sola Piattaforma, quella dei pagamenti elettronici, mentre il sistema delle Piattaforme abilitanti è ben più nutrito (in questa eterogenea area tematica annoveriamo Anagrafe Popolazione Residente, Agricoltura Digitale, Scuola Digitale, Giustizia Digitale, Turismo Digitale, Sanità digitale, Fattura pa, ecc.). È vero che il comma 3 dell’art. 8 rilancia la disciplina della Piattaforma Digitale Nazionale Dati, finalizzata come noto «a favorire la conoscenza e l’utilizzo del patrimonio informativo detenuto, per finalità istituzionali», dalle p.a. ai sensi dell’art. 50-ter del CAD; ma si tratta di una norma di scarso impatto organizzativo, poiché si limita ad affidare al Presidente del Consiglio funzioni di indirizzo, coordinamento e supporto tecnico delle pubbliche amministrazioni che potevano ritenersi in larga parte già implicite proprio nel disposto dell’art. 50-ter, là dove affida al Capo dell’esecutivo il compito di promuovere la progettazione, lo sviluppo e la sperimentazione della PDND. L’ermeneutica ed il buonsenso, quindi, potevano già supplire in modo soddisfacente all’evanescenza del dato normativo, semplicemente ponendo l’accento sull’ovvia «intenzione del legislatore» (art. 12 Disp. Prel. al cod. civ.).
Analoghe funzioni il ridetto comma 3 affida al Premier in ordine allo sviluppo ed all’implementazione del punto di accesso telematico ai servizi in rete delle p.a. di cui all’art. 64-bis del CAD. Si tratta certamente di una priorità (inserita dall’AgID nel programma di accelerazione noto come “Italia login”) e quindi ben venga una disposizione di impulso ai processi in corso sulla gestione pubblica dei big data, ma una cosa è sottolineare la centralità del punto di accesso, un altro è portare ad uno stadio più evoluto la «Piattaforma digitale» dei servizi; questa versa in una fase di stallo per varie e concomitanti cause, non ultima la pigrizia e la scarsa reattività di molte amministrazioni comunali, per le quali i concetti di «infrastrutture immateriali» e di «sistema integrato di interfacce» (API) evocano mondi ancora misteriosi e sconosciuti.
Centrando il discorso, dunque, sul comma 1 dell’art. 8, saltano all’occhio la rimarcata centralità degli obiettivi dell’Agenda digitale italiana e la ribadita necessità di coerenza tra questa e le finalità dell’Agenda digitale europea. Nel settore in esame, a quanto si può comprendere, la ricerca di «armonia» e di integrazione degli sforzi tra Italia ed Europa sembra costituire l’asse portante della complessiva strategia dell’attuale Governo. Il dato non va svilito al rango di mera declamazione di principio e, soprattutto, non va sottovalutato: non si dimentichi che in molte occasioni l’Esecutivo in carica è apparso poco incline ad accogliere le indicazioni provenienti dalla UE.
Tuttavia, come poc’anzi accennato, il comma si concentra su un limitato aspetto di tali Agende: quello della la gestione della Piattaforma dei pagamenti elettronici, oggetto di disciplina nell’art. 5, comma 2, del CAD.
Le ben conosciute previsioni dell’art. 5 non meritano qui richiamo se non per sommi capi: le pubbliche amministrazioni (nozione da intendersi in senso allagato e comprensivo delle Authorities, dei gestori di servizi pubblici e delle società soggette a controllo pubblico) sono tenute ad accettare i pagamenti spettanti a qualsiasi titolo attraverso sistemi di pagamento elettronico, ivi inclusi i micro-pagamenti derivanti da credito telefonico. A tale scopo (ed è questa la precipua previsione del menzionato comma 2) l’AgID mette a disposizione, attraverso il Sistema Pubblico di Connettività (SPC), una Piattaforma tecnologica per l’interconnessione e l’interoperabilità tra le pubbliche amministrazioni ed i PSP (prestatori di servizi di pagamento abilitati) al fine di assicurare, attraverso gli strumenti di cui al successivo art. 64, l’autenticazione dei soggetti interessati all’operazione in tutta la gestione del processo di pagamento
La disciplina in questione, per quanto lineare sul piano del drafting normativo, intercetta un ambito operativo estremamente sensibile e tale da condizionare notevolmente la vita quotidiana di tutti noi (pensiamo ai versamenti fiscali ed al pagamento sanzioni amministrative pecuniarie). Sismo perciò in presenza di un’infrastruttura tutt’altro che semplice da regolare, considerando che i PSP, da tempo censiti in apposito elenco pubblico curato dall’AgID, sono numerosi (Poste Italiane, SISAL e molte banche) e che gli stessi canali di pagamento utilizzati nel sistema “PagoPA” risultano piuttosto diversificati: si va da quelli più utilizzati dalle generazioni giovani ed intermedie (home banking, phone banking, app utilizzabili in mobile) a quelli cari alla popolazione più anziana (sportelli ATM, comunemente detti “bancomat”, e soprattutto sportelli fisici). Il quadro è complicato dal tema, delicatissimo, della sicurezza dei mezzi di pagamento, non potendosi più prescindere dall’elaborare rimedi risolutivi sia per i sistemi più consolidati (carte di credito, bonifici) che per quelli innovativi (il cellulare).
L’intervento normativo quindi, sia pure nella settorialità che lo contraddistingue, appare molto propizio perché tenta di dare una salutare “scossa” al settore dei pagamenti alla p.a., come da tempo si attendeva. In tale direzione il Legislatore gioca decisamente la carta dell’accentramento: il D.L. semplificazioni trasferisce le gestione della Piattaforma dei pagamenti elettronici e, in senso più generale ed onnicomprensivo, ogni compito (rectius, funzione amministrativa) ad essa relativo in capo alla Presidenza del Consiglio dei ministri Come precisato dall’art. 8, comma 1, la Presidenza si avvale, in questo ambito, del Commissario straordinario per l’attuazione dell’Agenda digitale, «se nominato» (sic).
La disposizione pare tesa a ricercare un equilibrio tra indirizzo politico-amministrativo sulle linee di gestione e sviluppo della Piattaforma, affidato in via esclusiva al Presidente del Consiglio, e gestione tecnico-operativa della stessa, la cui correttezza è interinalmente posta nelle mani di una figura commissariale strettamente legata al Premier.
L’equilibrio di cui sopra è confermato dal comma 3 dell’art. 8, già citato, che attribuisce al Premier «le funzioni di indirizzo, coordinamento e supporto tecnico delle pubbliche amministrazioni (…)». Non dimentichiamo, del resto, che i compiti di coordinamento spettanti al Commissario già in base all’art. 63, comma 1, del D.Lgs. 26 agosto 2016 n. 179 sono proiettati su un versante squisitamente operativo in quanto, secondo l’interpretazione più accreditata, attuativi dell’indirizzo politico: la disposizione ora citata, testualmente, assegna a tale soggetto «funzioni di coordinamento operativo dei soggetti pubblici, anche in forma societaria operanti nel settore delle tecnologie dell’informatica e della comunicazione e rilevanti per l’attuazione degli obiettivi di cui all’Agenda digitale italiana» (in coerenza con quelli dell’Agenda digitale europea). Il comma 6 dell’art. 63 sembra, a sua volta, intestare saldamente al Presidente del Consiglio l’indirizzo politico in materia nel momento in cui, pur assegnando al Commissario un ruolo di estrema visibilità nelle sedi istituzionali anche internazionali, ne confina l’azione entro lo stretto «fine di supportare il Presidente del Consiglio dei ministri nelle azioni strategiche in materia di innovazione tecnologica».
Sia come sia, ad un primo impatto il comma 1 dell’art. 8 lascerebbe intendere una certa predilezione del Legislatore per il perpetuarsi del duumvirato Premier-Commissario. Ma le apparenze ingannano: successivi commi 1-bis ed 1-ter, inseriti in fase di conversione, sparigliano le carte, accreditando la tesi di quanti, vedendo nel Commissario non più che una longa manus del Premier sia pure nelle dorate vesti di “ambasciatore del digitale”, ne caldeggiavano la cancellazione, anche sulla scorta della conclamata carenza di autonomia di azione e di decisione della figura (è emblematico, tra l’altro, che egli sia tenuto a riferire costantemente al Presidente del Consiglio dei ministri «sullo svolgimento della propria attività»: art. 63, comma 8, del CAD).
Il comma 1-bis dell’art. 8 proroga fino alla fine del corrente anno il mandato del Commissario straordinario in carica (nominato con D.P.C.M. 25 ottobre 2018 e destinato originariamente a scadere nel settembre 2019), salvaguardando al contempo l’operatività della relativa struttura di supporto; mentre il comma 1-ter sembra voler porre decisamente fine all’esperienza commissariale a decorrere dal 1 gennaio 2020. A partire da tale data, e con la finalità (reiterata a mò di mantra) di «garantire l’attuazione degli obiettivi dell’Agenda digitale italiana, anche in coerenza con l’Agenda digitale europea», le funzioni, i compiti e i poteri conferiti al Commissario transitano direttamente in capo al Presidente del Consiglio dei ministri o al Ministro delegato, che li esercita per il tramite delle strutture della Presidenza del Consiglio dei ministri dallo stesso individuate, di concerto con il Ministero dell’economia e delle finanze per le materie di competenza di quest’ultimo Dicastero.
Il combinato disposto delle due previsioni ora riferite, forse perché introdotte – ripetesi – in sede di conversione e magari con una certa fretta, scontano uno scarso coordinamento con l’impianto del testo governativo, rendendo piuttosto oscuro il significato del già ricordato inciso «se nominato» che compare nel comma 1 dell’art. 8. Fino al dicembre 2019 il Commissario “è” senz’altro nominato (perché prorogato) ed il Presidente del Consiglio può giovarsi del supporto suo e della struttura che a lui fa capo. A partire dal 1 gennaio 2020 il Commissario “non può essere” nominato. La disposizione del comma 1-ter, infatti, fa confluire nella Presidenza del Consiglio dei Ministri il momento dell’indirizzo politico ed il momento dell’attuazione operativa, unificando nel Premier le decisioni politico-strategiche e quelle attuative e tecniche; ambito, questo secondo, che viene evidentemente sottratto alle cessate competenze commissariali.
Tali decisioni possono tuttavia essere affidate, lo si ripete, ad un Ministro delegato. Poiché – verosimilmente – la delega verrebbe in tal caso attribuita al Ministro per la pubblica amministrazione, posto al vertice di un Ministero senza portafoglio, ha certamente un senso il fatto che per espresso dettato normativo le strutture di riferimento (a fronte della dismissione di quelle commissariali) restino incardinate nella Presidenza del Consiglio. Ma se questo era il proposito, tanto valeva specificare che la delega, pur eventuale, era “a destinatario obbligato” (il Ministro per la p.a.) e non “per persona da nominare” (il Ministro genericamente “delegato”), risultando piuttosto astrusa sul piano organizzativo ogni soluzione che non veda coinvolto il referente politico competente per materia.
Nella novella del 2019, la soppressione della gestione tecnica “monocratica” del Commissario, investito inevitabilmente anche di compiti strettamente decisionali e provvedimentali ancorché in un ambito eminentemente organizzativo e sotto lo stretto controllo del Presidente del Consiglio, viene compensata da una funzione di ausilio e di programmazione “collegiale”, affidata ad un organismo di indole peritale. Il comma 1-quater dell’art. 8 prevede infatti che il Presidente del Consiglio dei ministri, o il Ministro delegato, si avvalga di un «contingente di esperti» (l’espressione è testuale) messi a disposizioni delle strutture di cui al ridetto comma 1-ter. I membri del contingente in parola, proprio in quanto “esperti”, devono essere «in possesso di specifica ed elevata competenza tecnologica e di gestione di processi complessi, nonché di significativa esperienza in tali materie, ivi compreso lo sviluppo di programmi e piattaforme digitali con diffusione su larga scala».
Il medesimo comma 1-quater affida espressamente ad un apposito D.P.C.M. l’individuazione del “contingente” (ragionevolmente, si voleva intendere il numero dei suoi componenti) e la relativa composizione. Sarà questa stessa fonte, inoltre, a dettagliare le qualificazioni specificamente richieste ed a disciplinare i compensi degli esperti. Per la nomina dei componenti viene richiamato l’art. 9 della legge di riforma dell’ordinamento della Presidenza del Consiglio (D.Lgs. 30 luglio 1999 n. 303).
Va segnalato come nella legge di conversione, per descrivere il nuovo organismo collegiale, si sia accuratamente evitato di utilizzare il nomen iuris “Commissione tecnica”; la scelta è forse dovuta all’esigenza politica e comunicativa di trasmettere un messaggio di prontezza, snellezza e fattività nell’esercizio delle funzioni connesse alla Piattaforma (nella prima Repubblica si diceva che quando non si vuole decidere qualcosa si nomina una commissione), ma in termini meno faceti la ratio legis potrebbe risiedere nella volontà di riconoscere al nuovo “contingente” una veste strutturale più solida e stabile di quella che avrebbe connotato una “tradizionale” commissione (tecnica) consultiva. In tal senso il nuovo organismo, per quanto connotato da una veste di straordinarietà sul piano organizzativo, potrebbe concepirsi quale vero e proprio ufficio della Presidenza del Consiglio, in cui far convergere personale esperto con incarichi dirigenziali (art. 9, comma 1, D.Lgs. n. 303/1999), e personale non dirigenziale comunque qualificato del settore pubblico e privato (comma 2). Si vocifera di una possibile ricostituzione a Palazzo Chigi del DIT (il Dipartimento per l’innovazione e le tecnologie abrogato da Monti), magari con indizione di concorsi ad hoc per reperire professionalità adeguate e dedicate, ma è evidente che questa scelta – in disparte un indesiderabile frammentazione delle competenze – sarebbe vissuto dagli stakeholders come un ulteriore colpo inferto all’AgID.
Non vi sarebbe in ciò contrasto con il comma 1-ter dell’art. 8, secondo il quale il Presidente del Consiglio si deve avvalere «delle strutture della Presidenza del Consiglio dei ministri» da lui stesso individuate, perché il “contingente” così immaginato appartiene senz’altro al novero di tali strutture.
L’esigenza di continuità del “contingente” nel tempo appare peraltro innegabile, tenuto conto che il processo di implementazione della Piattaforma dei pagamenti non sarà di breve durata. Inoltre il team di esperti, se e nella misura in cui dovesse dare buona prova di sé, potrebbe via via assumere competenze sempre più estese per l’attuazione dell’Agenda digitale. Il modello del “contingente” si presenta perciò come una soluzione organizzativa sperimentale, ma fino ad un certo punto.
Poiché il D.P.C.M. più sopra richiamato deve prevedere, come visto, i compensi degli esperti, i componenti del “contingente” operano per legge a titolo oneroso. La previsione non desta particolare sorpresa, dal momento che già l’originaria gratuità dell’incarico commissariale (art. 63, comma 9, del D.Lgs. n. 179/2016) era stata soppressa, non senza malumori anche per la sospetta scelta dei tempi, con una norma inserita tra le c.d. proroghe balneari del 2018 (art.13-ter D.L. 25 luglio 2018 n. 91, conv. in legge 21 settembre 2018 n. 108). Vero è, però, che se il Commissario da retribuire era prima uno, ora gli esperti della “task force digitale” sono molteplici, ed al loro compenso si aggiungono gli oneri delle strutture di supporto e del personale assegnato ai nuovi compiti (cfr. il successivo art. 1-quinquies).
Di estrema importanza è l’art. 8, comma 2, del D.L. n. 135/2019, ove si prevede che entro 120 giorni dalla data di entrata in vigore del decreto, per lo svolgimento delle attività di cui al comma 1 venga costituita una società per azioni interamente partecipata dallo Stato.
La disposizione costituisce un segnale di enorme innovazione nella strategia complessiva del digitale. Si rammenta che a mente dell’art. 63, comma 5, del D.Lgs. n. 179/2016 il Commissario, nell’ambito delle proprie competenze e limitatamente all’attuazione dell’Agenda digitale, poteva (ed ancora potrebbe, fino al 31 dicembre 2019) avvalersi della collaborazione di società a partecipazione pubblica operanti nel settore delle tecnologie dell’informatica e della comunicazione, anche fruendo delle risorse societarie destinate allo scopo. Il Decreto semplificazioni fa registrare un netto cambio di passo: escludendo sia la valorizzazione di società in house preesistenti sia il ricorso la mercato (gare pubbliche con partecipazione di aspiranti gestori privati), il legislatore opta per la diretta creazione di una nuova struttura societaria dedita specificatamente alla gestione della Piattaforma per i pagamenti elettronici (vogliamo credere che i compiti della società siano più ampi di quelli volti semplicemente ad «assicurare la capillare diffusione del sistema di pagamento elettronico», come suggerirebbe la dizione letterale dell’art. 8, comma 3).
La previsione di una nuova società in house dedicata esclusivamente al progetto “PagoPA” offrirebbe parecchi spunti di riflessione. Ci limitiamo ad accennarne due.
Il primo è di carattere strettamente economico: poiché la sottoscrizione del capitale sociale iniziale deriva da quota parte delle risorse finanziarie già destinate all’AgID per le esigenze della piattaforma per i pagamenti elettronici, la diposizione finisce per costituire un fattore di mascherato depotenziamento dell’Agenzia in questione. Questo aspetto meritava forse un supplemento di attenzione, sia perché nessuna reale innovazione (specie quando si parla della crescita digitale del Paese) può sbocciare da un’impostazione preconcettualmente prigioniera del criterio dei “saldi invariati” per la finanza pubblica, sia perché il larvato indebolimento di una struttura rodata qual è l’AgID non sembra preludere a futuri rapporti di “cordialità” (ed i rapporti dovranno pur esservi) tra l’Agenzia e la nuova società. I maligni potrebbero peraltro ipotizzare che la nuova società (“PAGOPA spa” o “PIATTAFORME DIGITALI spa”, tra i nomi che circolano) nasca in contrapposizione e quale contraltare a SOGEI spa, emanazione del MEF, che ben avrebbe potuto servire allo scopo.
Il secondo rilievo attiene al campo delle competenze. Un ruolo dominante nella fase genetica ed operativa della società è affidato allo stesso Premier: secondo l’art. 8, comma 2, egli, con proprio decreto, individua criteri e modalità di costituzione della società, definisce le procedure di “distrazione” delle risorse AgID e quelle di sottoscrizione del capitale iniziale e, soprattutto, esercita la vigilanza sulla società avvalendosi di una specifica previsione statutaria a contenuto vincolato ex lege (si noti che la funzione di vigilanza è trasferibile al solo Ministro delegato). Non si deve però dimenticare che a mente dell’art. 9, comma 1, del D.Lgs. 19 agosto 2016 n. 175 per le partecipazioni pubbliche statali i diritti del socio sono esercitati dal Ministero dell’economia e delle finanze, di concerto con gli altri Ministeri competenti per materia. Si può quindi immaginare un intreccio di competenze o, quantomeno, una congerie di possibili interferenze decisionali sulle attività societarie tra Presidente del Consiglio dei ministri (vigilante), MEF (socio sostanziale) e Ministro della p.a. (competente per materia e quindi “concertante” con il MEF, nonché possibile “delegato” per le funzioni ex-commissariali ai sensi del già visto art. 8, comma 1-ter).
Siano consentite alcune ulteriori osservazioni, per concludere, originate dalle perplessità recentemente emerse in seno alla Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome; questa ha infatti prodotto un documento assai critico sull’art. 8 qui in esame (Posizione n. 19/22/CR9b/C14 del 13 febbraio 2019). Non ci si può qui diffondere in un’analisi articolata del documento, ma il suo evidente impatto politico reclama almeno qualche minima riflessione, vuoi perché offre spunti utili per intuire il clima del dialogo istituzionale prossimo venturo, vuoi per le ricadute normative ne potrebbero discendere (non di rado la normativa positiva statale recepisce le preoccupazioni delle Regioni).
Anzitutto, la Conferenza si duole del frazionamento dei centri di potere generato dal Decreto semplificazioni: si teme che la nuova e più complessa governance del digitale (formata da Presidenza del Consiglio, contingente di esperti, società in mano pubblica, oltre ai soggetti preesistenti AgID in testa) possa dequotare il ruolo dapprima ricoperto, quale referente unitario, dal Ministero della pubblica amministrazione (ex funzione pubblica). L’argomentazione è seria, ma non irresistibile: il Premier (o il Ministro delegato) rimane a tutt’oggi il punto di riferimento privilegiato per ogni tema rilevante in seno al dialogo istituzionale, dal momento che sempre al vertice politico dovrà essere ricondotta la responsabilità degli indirizzi impartiti ai variegati soggetti che operano nella strategia del digitale (è utile in tal senso rileggere l’art. 16 del CAD, che oltretutto onera il Premier di relazionare annualmente alle Camere). Del resto, neppure allo stato attuale si può parlare di un interlocutore realmente “unitario” delle Regioni, come il documento della Conferenza finisce di fatto per ammettere: ci sono e sempre ci saranno, com’è inevitabile vista l’ontologica duplicità della materia, interlocutori “tecnici” ed interlocutori “politici”.
La Conferenza lamenta, ancora, che il Presidente del Consiglio possa approvare in autonomia regole tecniche ed assumere stabili poteri di impulso e sostitutivi nei confronti di tutte le p.a., Regioni comprese, relativamente a tutti i temi dell’Agenda digitale.
Anche queste osservazioni si espongono a qualche dubbio. L’approvazione in sede politica delle regole tecniche era evidentemente possibile anche prima della riforma del 2019 ed in ciò nulla quaestio. Se, viceversa, per regole tecniche si intendono le linee-guida di attuazione del CAD, la relativa competenza, prima come adesso, resta ancorata in capo all’AgID per espresso disposto normativo (art. 71 del D.Lgs. n. 82/2005) e si estende, prima come adesso, all’introduzione di “regole di indirizzo” (l’inciso è ambiguo, ma non risulta sino ad oggi contestato in Corte costituzionale e comunque sembra da ricondurre interpretativamente ad un’area di regolazione squisitamente tecnica in sede di attuazione del CAD). Logicamente, queste prescrizioni dovrebbero costituire un ausilio alle Regioni e non un’invasione alla loro sfera di autonomia. Se invasione c’è, essa non deriva comunque dalla novella del 2019.
Sullo sfondo resta una considerazione basilare: i poteri riconducibili alla strategia digitale rientrano nell’ambito del «coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale»; materia, questa, in cui lo Stato è depositario di potestà legislativa esclusiva (art. 117, comma 2, lett. r), Cost.) ed ha, quindi, ogni titolo ad esercitare le connesse funzioni amministrative in conformità del principio di sussidiarietà (secondo l’insegnamento di Corte cost., sentenza n. 303 del 1 ottobre 2003). Ad ogni modo, e sul punto ogni timore è davvero eccessivo, l’eventuale mancata attuazione di obiettivi legati all’Agenda digitale italiana ed europea non sembra potersi tradurre in violazione disposizioni comunitarie o nazionali vincolanti. Trattasi quindi di un settore in cui difficilmente troveranno spazio sanzioni sostitutive emanate ai sensi dell’art. 120 cit.
D’altra parte, qualora un domani il quadro dovesse mutare, gli ipotetici poteri sostitutivi rimarrebbero ancorati ai presupposti della norma costituzionale ora richiamata ed alle procedure della legge “La Loggia” (art.8 legge 5 giugno 2003 n. 131), non ravvisandosi alcuna forzatura del sistema ad opera del D.L. n. 135 del 2019.
La Conferenza opina ulteriormente nel senso che una figura straordinaria come quella del Commissario venga inopportunamente disciplinata come se fosse ordinaria; non si andrebbe, secondo questa lettura, verso il suo superamento, ma verso la sua istituzionalizzazione anche oltre il 2020. A chi scrive pare che il rilievo sia poco aderente al dettato normativo. Come si è già anticipato, il “vecchio” Commissario viene prorogato fino al 31 dicembre 2019 (art. 8, comma 1-bis, D.L. n. 135/2019). A decorrere dal 1 gennaio 2010 funzioni, compiti e poteri commissariali passano al Presidente del Consiglio (art. 8, comma 1-ter, D.L. 135/2019). Non solo non viene annunciata alcuna ulteriore proroga (né una nuova nomina) del Commissario, ma sul piano strettamente logico non avrebbe alcun senso perpetuare ed “istituzionalizzare” la figura nel momento in cui viene spogliata delle sue competenze, riassorbite a chiare lettere nel vertice politico.
La Conferenza Stato-Regioni paventa, poi, che l’accentramento di funzioni possa entrare in conflitto «con il processo già in atto da parte di alcune Regioni verso una accresciuta autonomia ai sensi dell’art.116 Cost. ed anche con il rispetto dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza di cui all’art.118 Cost.». Sembra però che il conflitto in parola sia allo stato unicamente potenziale, potendosene valutare la rilevanza solo quando il lungo e complicato processo di autonomia differenziata entrerà nel vivo. In quella sede saranno elaborati tutti gli accorgimenti giuridico-interpretativi e/o normativi per bilanciare autonomia delle Regioni ed effettività del percorso verso la digitalizzazione.
Sarebbe davvero sorprendente che una necessità ineludibile ed indivisibile dell’intero “sistema Paese” fosse tramutata in un terreno di scontro tra Stato e Regioni. Piuttosto, essa deve divenire un’occasione permanente di cooperazione istituzionale, poiché il recupero di una reale unità di intenti per la crescita del sistema pubblico risponde ad una visione strategica ed intergenerazionale che merita di essere preservata dalle contingenti contese politiche.
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