La cura preventiva: sciroppo di Tamarindo

Riteniamo importante condividere con voi una prefazione molto interessante redatta da Eugenio Checchi, grande giornalista Italiano tra XIX e XX secolo (1838-1932), a proposito di Volfango Goethe e alcuni suoi scritti raccolti in un prezioso volumetto: Arminio e Dorotea, Ifigenia, Elegie Romane e Idilli. Con grande piacere, dunque, la Redazione di Sentieri Digitali ripropone in esclusiva  il contributo di Checchi redatto a Firenze nel Luglio del 1875 e ancor’oggi di sorprendente attualità, a voi commenti e riflessioni.

“Ai lettori…

Un libro come questo non ha bisogno di prefazioni. Gridino pure i falsi teneroni delle glorie nazionali contro quella che chiamano invasione delle letterature forestiere. Ma egli è un fatto che la cittadinanza acquisita da certi nomi e da certe opere venute di fuori via non ha più bisogno di chi la raccomandi, e mette fra noi radici sempre più salde. Avremo di certo ragione di lamentarcene se di qui nascesse che trascurassimo con ingratitudine indecorosa gl’ingegni del nostro paese. Ma è piuttosto da credere che una ragione della popolarità ottenuta dalle opere straniere in Italia è appunto questa, che mancano oggi più che mai gli ingegni, i quali sappiano tirare a se tutta quanta l’attenzione, gli affetti, i palpiti, la riconoscenza d’un pubblico, che è e sarà sempre smanioso del bello, e che piglia l’arte di chi gliela dà, senza frugare in tasca agli autori per sindacarne le fedi di nascita.

Sappiamo benissimo quel che son pronti a rispondere: le commozioni politiche, il vecchio da demolire e il nuovo da rifare, il faticoso lavorio dell’unità di tante provincie, la mancanza di un centro letterario e degli efficaci incoraggiamenti, e via via di questo gusto: tutte cose che abbiamo lette e rilette nella prima puntata di tutte le nuove riviste letterarie, apparse negli ultimi quindici anni. Ma il male è che il Pubblico di natura sua impaziente, s’irrita nell’aspettare, e come il fiume, a cui faccia argine improvvisamente un’immensa frana del monte, piglia una svolta e va per un’altra strada al mare che lo invita; così il Pubblico si volge altrove e cammina, cammina per sentieri a lui fino allora ignoti, si pasce nello spettacolo di nuove bellezze, e se la fa sua apoco a poco, quando nel dilettoso viaggio gli sia compagno taluno, che sappia fedelmente interpretargli quello che vede e che sente.

V’è ancora una timida scuola diplomatica, la scuola degli incipriati, la quale mette in dubbio la bontà d’un provvedimento quasi comune oramai a tutti i Governi, che è l’abolizione dei passaporti. Ma in letteratura questo provvedimento non dovrebbe ora neppur più discutersi: il libero transito delle merci e delle persone non può avere maggiori titoli di raccomandazione del libero transito delle idee, e se è vero che la restrizione doganali soppresse e le quarantene scemate non portarono un più grosso infierire di pestilenze da Paese a Paese, deve anche esser vero che la cosidetta lue delle letterature straniere ( ci sono delle frasi belle e fatte, e bisogna adoperarle) non può fare oggi in Italia maggiori stragi di quelle che ne facesse in passato. Se c’è chi ha paura del cholèra letterario, faccia alla bell’e meglio la cura preventiva, si cibi di pietanze paesane trovandone, e le annaffi col rinfrescante sciroppo di tamarindo. Chi invece ama l’arte per l’arte e cerca il bello dove sa di poterlo trovare, sfidi con facile coraggio le censure delle oche del moderno Campidoglio, e si metta lietamente in viaggio: ricatterà subito la spesa del biglietto.

Andrea Maffei espone brevemente e felicemente, in una dedica ad Alberto Errera il concetto delle Elegie Romane finora inedite per noi. Leggendole, vi sentirete infatti su quella classica terra dove fiorirono, se non nacquero, i grandi ingegni latini; e la potenza e la felicità del concetto, e la forza e la semplicità dell’espressione nell’opera del Goethe vi appariranno tali, quali sono appunto nei versi mirabili di quegli antichi scrittori, e vi sarà di più come la tinta nascosta, o che a malapena e di quando in quando traspare fra pelle e pelle di una sottile ironia, che fu una delle qualità di cotesto ingegno sovrano.

I cuori appassionati che versarono le lacrime sulle sventure amorose di Werther, storia verissima, il cui protagonista fu lo stesso Volfango, non potranno credere alle erotiche smanie, espresse con tanta leggiadria, che toglie l’impudenza, e saranno portati a fare raffronti tra le due donne: la gentile e poetica Carlotta e la voluttuosa Faustina.

Ma non si cerchino mai le intenzioni riposte dal poeta, che affida all’ingegno l’espressione d’un sentimento ch’ei prova o che dice di aver provato. Certo l’amore, di cui risuona un così caldo inno nelle Elegie,non ha vincoli di parentela con l’antica Venere celeste, e non ci voleva meno dell’ingegno del Goethe  è per rendercelo così amabile, e quasi si potrebbe dire così falsamente pudico. Ma perchè a lui piacque rivelare anche questa parte dell’avventurosa sua giovinezza, rallegriamoci ch’ella gli abbia pòrto occasione d’un componimento, che gareggia con le più belle poesie di Properzio e Marziale.

Gl’Idilli non sono che due, ma vi trabocca intensa passione amorosa. E in ispecie il secondo è notevole per la vivace pittura d’un addio degli amanti in riva al mare.

L’Arminio e Dorotea e l’Infigenia ingemmano la prima parte di questo prezioso volumetto, e già in tante occasioni ne fu discorso, che converrebbe per forza ripeter qui cose già dette. Fin dove possa arrivare l’eccellenza dello stile casalingo, e di quanta squisita eleganza possa questo stile vestirsi, ne ha la Germania un esempio nell’Arminio, come l’abbiamo noi nella poesia satirica del gusti: e Andrea Maffei riproduce in questa sua traduzione le bellezze di forma dell’originale. Come si possa trasportare nel linguaggio contemporaneo la fosca terribilità della greca tragedia, tanto da rammentare le creazioni meravigliose di Eschilo e di Sofocle, ce lo fa vedere il Goethe con la sua Ifigenia, che il Maffei tradusse in questi ultimi tempi, con lo stesso ardore giovanile e con la stessa felicità di successo che ammiriamo nella traduzione delle tragedie di Schiller. Se altri componimenti del Goethe ci avesse forniti per questo volume la Musa ubbidiente e feconda dell’illustre traduttore, nuove prove avremmo raccolto di ciò che in diverse occasioni scrivemmo; essere forse Volfango Goethe il più grande poetà dell’età nostra, perchè la tempra adamantina del suo ingegno risponde sonora, lucente e armoniosa a qualunque soggetto egli si volga; si che dappertutto vedete brillare di lume ora pacato e tranquillo, ora sfolgorante e terribile, il lampo d’un genio immortale.

Firenze, nel Luglio del 1875.

E. Checchi”.

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