Le lingue durante le epidemie. Lingua collante tra i popoli.

Prima di due anni fa, la generazione Z, i giovani di oggi non avevano mai sentito nominare la parola “epidemia” o “pandemia”.  Tra i due termini, come si è potuto poi constatare attraverso il flusso incessante di notizie, sussiste una notevole differenza. All’inizio, la comunità scientifica internazionale ipotizzò che si trattasse di un’epidemia, ovvero (per definizione) la “diffusione di una malattia infettiva su un territorio più o meno vasto, con un grande numero di individui colpiti”. Dato che, il paese dove ebbe origine la “malattia infettiva”, denominata Covid-19, l’acronimo di “Corona virus disease 2019”, fu la Cina. In seguito, si diffuse rapidamente e colpì la popolazione in maniera globale, tanto da essere denominata “pandemia”, ovvero un’“epidemia con tendenza a diffondersi ovunque, cioè a invadere rapidamente vastissimi territori e continenti”.

La pandemia non ha contagiato solo le persone, ha invaso e trasformato ogni aspetto della vita quotidiana: il modo di comportarsi, di comunicare, di muoversi, di viaggiare. Il contatto fisico, per esempio, è stato proibito per la potente capacità di diffusione del virus. La lingua del corpo costituita dall’energia di abbracci, baci e strette di mano, principio di comunicazione del popolo italiano, non è stata più ammissibile. L’unica lingua, di cui si è potuto usufruire per connettersi con le persone a noi care e con il resto del mondo, è stata la “parola”, la facoltà di parlare ma a distanza. Questa connessione a distanza è stata conseguita attraverso l’utilizzo di piattaforme digitali come Teams, Zoom o Meet, per una didattica online (la “dad”) invece che a scuola. Ugualmente, il lavoro in ufficio era divenuto lavoro da casa. Inoltre, le conseguenze di questi cambiamenti hanno comportato l’assunzione di nuovi termini, di anglicismi nella lingua italiana, come: “lockdown” (isolamento, confinamento); “smart-working” (lavoro agile, intelligente); “workation” ovvero “work” + “vacation” (lavoro/vacanza, la possibilità di lavorare di remoto in vacanza in un luogo di villeggiatura); “green pass” (certificazione verde), “no vax” (no vaccino), “booster” (potenziatore o potenziamento, riferito alla terza dose). Il vocabolario quotidiano è stato pervaso e arricchito da tecnicismi come: asintomatico, sintomatico, vaccino, variante, virologo, comorbilità, virale, quarantena, mascherina chirurgica, “FFP2”, “FFP3”, dose, tamponare (riferito al tampone), molecolare, rapido, “immunità di gregge” … ecc.

In aggiunta, alcune parole hanno fatto la differenza nell’evolversi della pandemia, per esempio: congiunti; affetti stabili; zona gialla, arancione, rossa o bianca; positivo; negativo… ecc.

Per concludere, la pandemia ha privato le persone della loro quotidianità, della loro libertà personale, del libero arbitrio, di compiere le proprie scelte ordinarie senza restrizioni. Tuttavia, il lato “positivo”, “thought-provoking” (che fa pensare) di questo virus, è stata la successiva riflessione su ciò che era considerato fin a quel momento, scontato, ossia la normalità e le abitudini individuali. Probabilmente, godersi la propria famiglia non è stato, in fin dei conti, un momento negativo.

 

 

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