Pur apprezzando gli sforzi dell’attuale esecutivo, che ha affrontato per la prima volta da anni il dramma della disoccupazione giovanile, i recenti dati Istat sui consumi avrebbero dovuto consigliare altre misure quali priorità per la crescita.
Il calo delle vendite al dettaglio, ad aprile crollate del 2,9% sul confronto annuo, è emblematico di un drastico mutamento delle abitudini di spesa, che ridimensiona le stime sulla domanda interna. Ma essa è una delle componenti principali del mercato di riferimento delle imprese italiane: ha senso proporre loro incentivi economici per assumere nuovi dipendenti, quando il loro fatturato è in netta discesa? Quale impresa oggi, a fronte di un volume sempre più ridotto di ordini dal mercato interno, assume – per di più a tempo indeterminato, quindi in un’ottica di lungo periodo – nuovi dipendenti?
Un’economia in recessione, come lo è la nostra, ha necessità di stimoli espansivi sulla domanda interna: una concreta, severa spending review avrebbe liberato risorse per ridurre il peso del fisco e consentito ai cittadini di aumentare i consumi, instaurando un circolo virtuoso di crescita in cui le imprese, a fronte di maggiori vendite, non avrebbero esitato ad aumentare il personale per fare fronte alle richieste del mercato.
Invece, al di là delle promesse e delle dichiarazioni, nulla si è mosso sul fronte del bilancio dello Stato, perfino su quelle voci di spesa che salgono agli onori della cronaca per la loro inutilità. L’andamento dello spread di questi giorni, pur includendo una componente speculativa, è comunque una valida indicazione della ricomparsa sui mercati di un clima di sfiducia in merito alle capacità dell’Italia di invertire la congiuntura economica.