Rimettersi in gioco: come, quando e perchè

Rimettersi in gioco sul lavoro è sempre più necessario per tutti.
Al di là degli slogan, la necessità di farlo nasce da alcune semplici constatazioni: la vita media si è allungata, la vita lavorativa pure, l’innovazione tecnologica negli ultimi dieci anni ha perso il controllo di se stessa generando profonde modifiche al mondo del lavoro, e la vita media delle professioni si è di conseguenza molto accorciata.
Si tratta dunque di una scelta obbligata dalla velocità del cambiamento, che richiede di reinventarsi su altri mestieri nel corso della vita lavorativa o comunque di reinterpretare in modo completamente diverso quello “superstite” in cui si opera.
Ogni anno di mestieri ne vanno in crisi molti, ne muoiono altrettanti, altri ne nascono abilitati dall’innovazione e dalle connesse dinamiche di mercato (chi avrebbe mai cercato un esperto di regolatorio, antitrust o privacy poco più di 10 anni fa?) e tanti altri ancora si trasformano profondamente.
Un esempio per tutti di quest’ultima categoria: la vendita.
È tra i mestieri più vecchi del mondo e per millenni è rimasto praticamente immutato, sin quando – all’inizio del nuovo secolo – il mercato ha subito trasformazioni tali da cambiargli radicalmente i connotati professionali, di pari passo al cambiamento che c’è stato nei comportamenti d’acquisto dei clienti.
La pura vendita dei prodotti va scemando ed è sempre più accompagnata da servizi complementari che aggiungono valore all’acquisto: la competizione e la tecnologia hanno portato ad un ampiamento enorme dell’offerta e la scelta del compratore deve poter contare su chi vende per capire il prodotto che fa meglio al caso suo. Sennò andrà sempre di più in rete o dai grandi rivenditori dei centri commerciali, dove la scelta viene guidata dal prezzo e poco più.
Inoltre alla vendita dell’oggetto è sempre più legata la domanda di servizi di post-vendita, che spesso il cliente è disposto a pagare a parte pur di non essere lasciato solo e di poter contare su una assistenza qualificata per tutto il ciclo di vita del prodotto acquistato.
Così vendere – auto, vernici o matite non importa – è diventato un altro mestiere, con i clienti che sono mediamente molto più informati su prodotti e prezzi e che pretendono dal venditore qualità del suo servizio (oltre che del prodotto acquistato), competenza, consulenza e partnership. Sembrano passati anni luce da quando si vendevano da dietro al banco prodotti a scaffale, o si tenevano quasi esclusivamente relazioni con i clienti per generare ricavi: oggi tutto questo è una parte minima della professione di venditore, al quale è richiesto di cambiare pelle. Oppure mestiere.
 
L’esempio della trasformazione del ruolo del venditore fa riflettere su almeno tre fatti ben più generali.
Il primo è che col trasformarsi dei mestieri si creano nuove opportunità di business, nuove aree prima inesistenti o inesplorate in cui c’è spazio per emergenti professioni contigue: tornando all’esempio della vendita, nel relativo ambito professionale sono nati mestieri complementari a quello “core” (di consulenza commerciale, assistenza post-sales, ecc.) da cui sempre più il venditore e il cliente dipendono lungo la nuova filiera commerciale della vendita. Si è creata insomma la possibilità di generare nuovo lavoro e nuova ricchezza da filoni adiacenti a quelli tradizionali, le cui potenzialità di sviluppo sono importanti se affrontate con innovazione e creatività.
Il secondo fatto su cui riflettere è che il cambiamento non riguarda solo alcuni mestieri – come successe negli anni ’60 ai venditori di materassi di lana, surclassati in poco tempo dall’avvento della Permaflex e dai materassi a molle – , ma attraversa tutto il tessuto produttivo per millenni alla base del lavoro: i relativi stereotipi sono stati sovvertiti in pochi anni , davvero pochi se comparati – come nell’esempio della vendita – a come ha funzionato per secoli il commercio senza sostanziali modifiche.
Il terzo fatto è che tutto questo è successo senza una individuabile e chiara causa scatenante. Semplicemente le più recenti dinamiche innovative economiche, tecnologiche e sociali hanno avuto un impatto così potente su tutto il nostro ecosistema sociale da modificare sia la natura stessa del lavoro che le competenze professionali richieste dal mercato.
Il cambiamento è dunque avvenuto in modo subdolo – non ce ne siamo quasi neanche accorti – minando la nostra capacità di affrontarlo con la necessaria energia.
E questo è stato un guaio, perché la natura umana è tipicamente conservativa e senza stimoli chiari non si predispone a rimettersi in gioco. “L’omo campa”, ripeteva ancora recentemente un illuminato top manager nel vedere come a fronte delle avversità industriali il professionista medio ha trovato per anni “comunque” un nuovo assestamento, una sua confort zone, facendosi una ragione di tutto.
Ma ora la novità è che questa “resilienza” non tiene più: o ci si rimette in gioco uscendo dalla zona di confort, oppure più o meno lentamente si rischia di veder impoverire il proprio mestiere giorno dopo giorno, se non da un giorno all’altro.
Il modo subdolo su cui questa rivoluzione industriale ci ha travolti è dunque un vero pericolo per il nostro futuro. La prima cosa diventa allora recuperare consapevolezza sulla burrasca in corso e su quanta acqua la nostra barca professionale stia imbarcando, per lasciarla in sicurezza al momento giusto verso nuove avventure.
Siamo solo all’inizio di questo percorso, e quindi ancora in tempo per affrontarlo. Ma serve subito una scintilla che accenda questa nostra consapevolezza sull’urgenza di muoverci, se è vero che nei prossimi 3 anni oltre la metà degli occupati dovrà affrontare percorsi di riqualificazione e un terzo anche di reimpiego in altre attività.

Essere consapevoli della necessità di rimettersi in gioco è certamente il primo passo, assolutamente necessario ma non sufficiente. Ci sono molte virtù da dover allenare affinché il percorso di riqualificazione professionale abbia successo, a cominciare da una buona dose di coraggio, di molto impegno e di una grande capacità di leggere il contesto professionale intorno a noi per muoversi prima che sia troppo tardi.

Senza dare nulla per scontato rispetto all’occupazione attuale: ci sono oggi ruoli professionali cd. “precari” che hanno nel mercato del lavoro una prospettiva di “stabilità” e di evoluzione di gran lunga superiore a molti impieghi a tempo indeterminato, in cui la “sicurezza” è data dal tipo di contratto più che dal mestiere. Ma quest’ultima si che è diventata una sicurezza precaria, che durerà sin quando il sistema economico-produttivo – prima ancora che il datore di lavoro – potrà permetterselo.
Per valutare la solidità e il futuro delle professioni non fa più fede dunque il tipo di contratto di lavoro formalmente in essere, ma solo la sostanza e la effettiva generazione di valore del mestiere svolto.
Rimettersi in gioco nella giusta direzione vuol dire allora guardarsi intorno con spirito critico e curiosità partendo dalle proprie attitudini professionali – da ciò che ci piace e che ci riesce meglio – sviluppandoci attorno un nuovo know-how.
Si potrà partire dal “vecchio mestiere” per il quale si ha ancora interesse piuttosto che da una passione personale da sempre coltivata nei ritagli di tempo. Sono più numerosi di quanto si pensi, ad esempio, gli esperti di informatica digitale o di big data che “galleggiano” sottoutilizzati nelle aziende in vecchie attività tradizionali, e che non riescono a fare il loro salto dalla rupe.
Perché ciò accada occorre investire in due direzioni. Da un lato, disporre di una rete di protezione per chi è pronto a rimettersi in gioco affinché non vada allo sbaraglio. Le maglie della rete possono essere piccole a piacere, e vanno dalla politica dei piccoli passi nel prepararsi il nuovo sentiero prima di percorrerlo lasciando gli ormeggi, all’ottenimento di finanziamenti europei per la riqualificazione professionale e le start-up. Finanziamenti troppo spesso considerati – a torto – un irraggiungibile privilegio di pochi, col risultato che gli stanziamenti disponibili su questo capitolo sono rimasti inutilizzati o male utilizzati.
Dall’altro, sviluppare le competenze attraverso coerenti percorsi di formazione. Molto si può fare con l’autoapprendimento digitale e l’utilizzo di piattaforme di knowledge sharing, ma altrettanto deve essere fatto dalle istituzioni e dalle imprese che erogano formazione. Queste hanno una grande responsabilità nel costruire e promuovere percorsi di sviluppo professionale concretamente a sostegno alle persone che si rimettono in gioco cambiando mestiere.
Al complicarsi della realtà del lavoro, invece, non sempre abbiamo assistito ad una corrispondente crescita di una offerta formativa di qualità. Occorre allora, anche su questo campo, recuperare terreno altrettanto velocemente per sostenere una aggiornata crescita delle nuove competenze, dei relativi mestieri che nascono e dell’occupazione nel suo complesso. La domanda c’è e crescerà, gli investimenti / finanziamenti per farlo pure.
Perché se è vero che rimettersi in gioco è necessario e richiede impegno e coraggio da parte degli individui, è altrettanto vero che il sistema sociale delle istituzioni (per definizione) e quello industriale (per interesse, di breve per chi sa erogare formazione di qualità, di prospettiva per gli altri) devono mettere in condizione tutti di avere una seconda chance lavorativa in questa sfida epocale.
Molto spetta alla singola persona, come abbiamo visto, ma chi si rimbocca le maniche deve essere sostenuto e valorizzato. Ognuno deve insomma fare la sua parte, e se questo accadrà tra tre anni parleremo in modo diverso di questo tema.
15 febbraio 2019    Filippo Antilici de Martini di Valle Aperta

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