Referendum trivelle: si o no?

Ripercussioni ambientali e conseguenze negative per il turismo, questi sono i motivi principali che hanno portato, da nord a sud, Veneto, Liguria, Marche, Campania, Molise, Basilicata, Puglia, Calabria ed infine la Sardegna, a chiedere un referendum, previsto per il 17 aprile, al fine di abolire la norma che oggi consente di estrarre petrolio e gas, senza limiti e scadenze temporali, entro le 12 miglia marine dalle coste italiane. Il referendum, dunque, garantirà, nel caso in cui vincesse il sì (ricordiamoci che in Italia i referendum sono a carattere abrogativo), una progressiva opera di chiusura delle piattaforme marine presenti sul territorio italiano nell’arco dei prossimi 5-10 anni, tempo corrispondente alla scadenza delle attuali concessioni. Questa possibile chiusura, che avverrà indipendentemente dal fatto che sarà o meno completamente esaurito il bacino di risorse estraibili, su quante delle 92 piattaforme presenti entro le 12 miglia avrà effetto? Bisogna dire, per chiarire le dimensioni del fenomeno, che il referendum riguarderà solamente 48 piattaforme, le quali sono le uniche effettivamente eroganti. Bisogna inoltre aggiungere il fatto che, secondo quanto riportato da Legambiente, queste 48 piattaforme coprono, tra petrolio e gas, meno del 4% del fabbisogno nazionale.

Ecco che allora, tra aspetti tecnici e populismo, si sono suddivise due fazioni, aventi entrambe le rispettive argomentazioni, al fine di sensibilizzare coloro che rimangono ancora oggi nel limbo della decisione finale: sì o no?

Il punto che sicuramente desta più discussioni è quello riguardante l’impatto degli idrocarburi in mare. L’eventuale rischio di uno sversamento di quest’ultimi nelle acque circostanti, è concreto. Ciò può avvenire non solo in seguito ad incidenti, ma anche a causa delle imprecise operazioni di routine che provocano un costante inquinamento di fondo. Inutile aggiungere che un incidente petrolifero di determinate proporzioni, come ad esempio il tristemente noto Deepwater Horizon nel Golfo del Messico, rappresenterebbe una seria minaccia per l’ambiente oltre che per il settore turistico, il quale costituisce il 10% del Pil nazionale annuo e dà lavoro a più di 3 milioni di persone (le attività legate all’estrazione garantiscono comunque circa 10.000 posti di lavoro). Per ribattere questa tesi, i sostenitori del no sottolineano il costante controllo delle estrazioni da parte di più enti, tra cui l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), l’Istituto Nazionale di oceanografia, di quello di geofisica e di quello di geologia. I controlli che avvengono, dunque, sono numerosi e costanti (nonostante molte associazioni ambientaliste neghino tutto ciò), ed effettivamente non hanno mai rilevato incidenti e/o pericoli di qualsiasi rilievo.

Questa attenzione per scongiurare un possibile impatto ambientale risulta però paradossale in quanto, alla recentissima conferenza riguardante il clima tenutasi a Parigi, quasi 200 paesi, tra cui l’Italia, si sono impegnati ad effettuare un netto taglio all’uso dei combustibili fossili, al fine di mantenere l’innalzamento di temperatura del pianeta al di sotto dei 2 gradi. Resta però vero che, oggi, le risorse rinnovabili non sono in grado di garantire un’elevata affidabilità e, per tale motivo, vanno inizialmente integrate all’uso delle attuali risorse energetiche.

Tuttavia, al di là di tutte le variabili positive e negative che il risultato del referendum può concretizzare, occorre sottolineare il legame esistente tra le attività di estrazione e gli eventi sismici. Per quanto riguarda questa connessione, la comunità scientifica è oggi d’accordo, dopo anni di dibattito, sul fatto che la trivellazione (così come il fracking) possa favorire l’innesco di un terremoto di magnitudo più o meno elevata a seconda della struttura geologica del terreno sottoposto alla trivellazione stessa. L’Italia, non si scopre certo oggi, è uno dei paesi a maggiore rischio sismico del Mediterraneo, sia per la frequenza dei terremoti che hanno storicamente interessato il suo territorio, sia per l’intensità che alcuni di essi hanno raggiunto. L’elevata sismicità della Penisola è legata in particolare alla sua posizione geografica in quanto, essendo situata nella zona di convergenza tra la placca africana e quella euroasiatica, si ritrova sottoposta a forti spinte compressive. In questa direzione si rivelerebbero molto importanti studi maggiormente approfonditi (considerato il ritardo con il quale sono state introdotte in Italia sia la classificazione sismica che le relative norme antisismiche) di microzonazione sismica, la quale consente di valutare la pericolosità sismica locale, relativa dunque ad aree ristrette, tramite l’individuazione di zone di territorio caratterizzato da un comportamento sismico omogeneo. Tutto ciò potrebbe garantire il possesso di informazioni utili riguardo eventuali faglie attive e per pianificare o realizzare interventi sul territorio in funzione della difesa dei terremoti. Su questa linea sarebbe opportuno informare la popolazione riguardo la propria esposizione ad un eventuale fenomeno sismico in quanto, che si propenda a favore del sì o del no, la pericolosità di quest’ultimo è di interesse comune.

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