Jihad: la terza fase del terrore

Anno 2017, fase tre. L’ISIS incassa, subisce. L’obiettivo di farsi Stato, di creare un Califfato degno dell’acme espansionistico dell’Impero Ottomano, è stato perentoriamente messo in disparte. Come prevedibile, le sconfitte militari subite tra Libia, Iraq e Siria, hanno condotto i terroristi ad adottare la strategia del terrorismo mobile. È proprio questa la terza fase, portata avanti da piccoli nuclei, tra loro isolati, che colpiscono obiettivi occidentali in maniera casuale.

Ma partiamo dall’inizio. Nella prima fase i jihadisti, attraverso una fitta rete comunicativa (più o meno nota ai servizi segreti di investigazione), spostavano a loro piacimento i neofiti di qualsivoglia nazionalità nei campi, per poi addestrare le future milizie in infrastrutture specializzate. Dopodiché, una volta terminato l’apprendistato, attraverso la stessa rete comunicativa venivano infiltrati nei paesi dove avrebbero scatenato gli attacchi, ricevuto denaro, armi e cinture esplosive.

Nella seconda fase, invece, grazie all’espansione dello Stato Islamico (biennio 2014-2015), questi centri di addestramento si sono sviluppati all’interno dei confini dei territori controllati dai terroristi. Le immagini ed i video parlano chiaro: in questi campi venivano addestrati, senza alcuna differenza, persone di qualsiasi età e provenienti da qualsiasi angolo del globo.  In tal modo è stato possibile rendere maggiormente efficienti queste infrastrutture, aumentandone la capacità propagandistica, fornendole di psicologi, informatici, centri di comunicazione.

Eccoci, oggi, nel pieno svolgimento della terza fase. L’addestramento e l’armamento sono archiviati, l’ISIS insegna ai potenziali nuovi terroristi come individuare gli obiettivi nello stesso territorio in cui si trova l’attentatore. Le armi, comunque sia, in qualche modo riescono ad arrivare; ma, nel caso in cui fossero un problema, le stragi di Nizza e Berlino insegnano che non sono necessari proiettili per compiere carneficine.

Anche Gerusalemme, volgendo l’attenzione più ad est, ne è un sanguinoso esempio.  Non esiste più una base operativa, un punto di riferimento, un centro di comando. Le basi ideologiche che vengono divulgate e per le quali si continuano a mietere vittime sono le stesse, ma non ci sono più le squadre di fanatici pronte a colpire (si veda Parigi, 13 novembre 2015).
Esistono oggi lupi solitari, al massimo in coppia, persone emarginate, psicologicamente deboli, che si procurano armi improvvisate e scelgono in modo autonomo gli obiettivi ed il tempo d’azione. Solo alla fine, quando l’eccidio è ormai compiuto, l’ISIS interviene tramite social network per rivendicare l’accaduto.

In sostanza si può notare che la differenza preponderante rispetto alle precedenti forme di terrorismo di tale matrice, è il costante logorio delle reti comunicative che collegano gli esecutori materiali con i vertici organizzativi. L’ISIS, tirando le fila, si sta indebolendo. La distanza temporale tra un attentato e l’altro aumenta in modo progressivo e costante.

Paradossalmente, però, questa terza fase dell’evoluzione (o involuzione?) terroristica in questione è la più pericolosa tra le precedenti. Le strategie di antiterrorismo finora progettate rischiano di farsi prendere in contropiede. Il nemico è ora evanescente, oltre che pericoloso, pronto a tutto, imprevedibile. Mancano quei contatti che permettevano l’intercettazione ed il monitoraggio dello spostamento di fanatici e materiale bellico nelle aree di interesse.

Non c’è comunque da disperarsi. Spesso, studiando accuratamente il nemico, le sue radici, il suo modo di pensare, si possono trarre informazioni utili per contrastarlo. Analizzando infatti con attenzione il materiale di propaganda distribuito dalle due più note organizzazioni terroristiche mediorientali (Al Qaeda ed ISIS), si può notare un gretto articolo descrivente nel dettaglio come procurarsi un grosso automezzo al fine di trasformarlo in un “tosaerba definitivo” affinché si possano “sradicare” gli oppositori del Califfato. Ossia la descrizione, in breve, degli attentati rivendicati a Nizza e Berlino precedentemente citati.

Tralasciando l’ampia questione legata ai flussi migratori, nonché al mito dell’accoglienza europea, occorre ammettere che oggi la jihad è tra noi. Tra Nizza e Bruxelles, tra Parigi ed Istanbul, tra Berlino e l’hinterland meneghino. Siamo sotto la fase di un nuovo attacco. La terza fase. E per combattere in modo efficace una minaccia così inafferrabile, messa in atto senza possibilità di essere captata, facente uso di persone comuni trasformate in armi di distruzione di massa, sarà fondamentale e decisivo sostenere le azioni in loco approfondendo le strategie di intelligence già operative. Se ciò prevarrà, l’ISIS apparirà per ciò che finalmente è: un’organizzazione terroristica allo sbando, priva di una significativa capacità di penetrazione culturale nelle città occidentali, che si accinge ad essere rasata al suolo in tutti i suoi domini, in Siria e in Iraq. In caso contrario, l’ISIS riceverà un beneficio, apparendo così per quello che non è: un’organizzazione terroristica vincente.

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