Uno dei punti più discussi della recente riforma dell’università riguarda l’ingresso del mondo delle imprese negli atenei. La presenza di imprenditori nei consigli di amministrazione universitari non rappresenta una riduzione dell’autonomia decisionale dei docenti, né un limite al peso del Senato accademico in favore dei CdA, ipotesi frutto di una presunta trasformazione delle università in aziende. E’ invece l’apporto di competenze ed esperienze sul campo preziose per indirizzare la governance verso gli ambiti più promettenti della ricerca e della formazione, consentendo al mondo produttivo di interagire con gli atenei locali per migliorare la formazione e quindi le possibilità di occupazione degli studenti.
E’ noto che attualmente un elevato numero di laureati non riesce a trovare lavoro nell’ambito della propria specializzazione, in quanto le loro conoscenze non sono ritenute adeguate dai potenziali datori di lavoro. Nelle discipline scientifiche oppure tecnico economiche, le aziende finora si sono fatte carico dell’onere di completare la formazione dei neolaureati in modo da renderli produttivi per la struttura. Mediante la formazione interna, i giovani possono così acquisire le nozioni utili per svolgere il loro lavoro: una conoscenza mutevole nel tempo, a cui i programmi di studio non riescono ad adeguarsi con velocità proprio per il distacco culturale che nel nostro Paese separa l’università “tempio del sapere” dalle aziende “centri del profitto”.
Cultura e profitto non hanno alcun motivo di essere considerati antitetici: lo sviluppo della civiltà si basa sul progredire delle conoscenze e sulla loro sempre più ampia diffusione. Senza cultura non vi può essere crescita economica, a conferma dello stretto legame tra il sapere e il profitto, come dimostrano due Paesi in forte crescita quali la Cina e l’India, caratterizzati da una scolarizzazione di massa di ottimo livello, mentre il continente africano sconta l’assenza di una forma ampia di accesso all’istruzione con un ritardo di sviluppo atavico.
Nelle discipline umanistiche, l’arroccarsi della Cultura in una presunta “purezza” che non vuole “sporcarsi” con il denaro, la rende lontana dalla realtà quotidiana di un’economia di mercato, condannando i laureati in queste materie ad un futuro autoreferenziale (insegnando ad altri la loro conoscenza), oppure ad inseguire un impiego nella Pubblica Amministrazione, unico bacino di offerta di lavoro nel settore. Una situazione che rappresenta una perdita di opportunità sia per i giovani (costretti ad una lunga attesa prima di riuscire ad avere un lavoro) che per le imprese, alle quali viene a mancare il contributo di conoscenze che vanno ad integrare i team di lavoro interni.
Un laureato in filosofia può inserirsi con successo in un progetto informatico, per le sue doti di ragionamento e logica, e infatti aziende quali la IBM ne richiedono la presenza. Oppure, esperti in storia dell’arte possono mettere a frutto la loro conoscenza nell’ambito della comunicazione e della pubblicità, dove le arti visive non sono solo tecnica ma soprattutto cultura.
In altri tempi, nella società industriale dove “produzione” significava “manifattura” aveva senso la ballata di Brecht: «Vuoi viver della testa? Uomo non esser sciocco! Della tua testa al massimo può vivere un pidocchio». Allora la “cultura”, intesa nel senso di arte e letteratura, non poteva assicurare con certezza uno stipendio .
Oggi è diverso: il consumatore richiede articoli di design anche quando acquista una lavatrice, perfino la confezione (il packaging) di un qualsiasi prodotto è un elemento da studiare con attenzione, che può “fare la differenza” su uno scaffale. E ogni azienda, per l’aggiornamento del suo sito web e per tutte le attività di comunicazione deve servirsi di personale con uno skill professionale adeguato (laureati in lettere, sociologia, scienze della comunicazione).
Tuttavia, l’inserimento in azienda di laureati in discipline umanistiche è reso difficile da programmi di studio che non tengono conto delle necessità del mondo produttivo, trascurando quegli elementi di conoscenza che sarebbero preziosi per le imprese.
Analogamente, anche nella ricerca, oltre che nella formazione, la collaborazione università – imprese potrebbe dare frutti straordinari, indirizzando i piani di ricerca in modo da essere utili per la collettività, tramite le aziende. Si pensi, ad esempio, alle numerose sperimentazioni portate avanti dalle facoltà di Agraria con le migliori aziende del territorio, lungo tutta la filiera della produzione alimentare che è uno dei settori più promettenti della nostra economia. Inoltre, la presenza delle aziende nell’ambito della ricerca consente anche di attingere a nuove risorse economiche che potenziano le possibilità di fare ricerca all’interno dell’università.
Tutti elementi positivi, se si guarda ad essi con uno spirito nuovo, privo delle implicazioni dettate dall’appartenenza politica o da un eccessivo attaccamento ad una cultura tradizionale, poco aperta alle “contaminazioni” con altri settori della vita del Paese. Senza tenere conto che il futuro chiederà sempre di più conoscenze “trasversali” ai giovani, poiché i compiti “verticali” saranno sempre più spesso meccanizzati o delocalizzati.
La proposta contenuta nel progetto di riforma dell’università non è un salto nel buio: oltre ad essere la norma nella maggior parte dei paesi industrializzati, la presenza delle aziende è già ben accettata dalle università nella organizzazione e gestione dei master di specializzazione post laurea. “Anticipare” il contributo delle aziende nella fase formativa precedente significa anche consentire a coloro che non avranno la possibilità economica di frequentare un master di beneficiare del rapporto università – impresa.