Progettare il nostro rilancio: 6 problemi che possono trasformarsi in leve di successo

Stiamo attraversando uno strano periodo di “limbo” in cui molte certezze sociali ed economiche “pre-covid” ci hanno improvvisamente abbandonato, ed a fronte di ciò non si è ancora palesato un progetto concreto che metta in condizione persone ed imprese – soprattutto quelle piccole e medie, per definizione più fragili – di riprendere fiducia nel futuro.
Addirittura si rischia di non riuscire a investire in modo organizzato l’ingente aiuto economico che l’Europa ci sta mettendo a disposizione, come purtroppo è già accaduto in passato con i finanziamenti in agricoltura, formazione professionale, ecc. La differenza è che questa volta la situazione è talmente critica che dobbiamo muoverci con estrema efficacia, facendo ognuno il suo per il rilancio dell’economia e del lavoro.
Ci pervade però un senso di profonda incertezza sul futuro, che non si è ancora trasformata in nuova energia per ripartire al meglio. È come se galleggiassimo in acque profonde, sopra increspate ma sotto attraversate da forti correnti, aspettando aiuti di stato e tempi migliori. Ci muoviamo “rallentati” nel riprenderci in mano il nostro destino, che una improvvisa pandemia ci ha strappato di mano in pochi giorni azzerando i nostri progetti (come è accaduto a molti ragazzi sulla rampa di lancio professionale) o compromettendo l’equilibrio che avevamo trovato passo – passo dopo anni di impegno professionale.
Questo disorientamento – che spesso affrontiamo con la testa girata al 2019 cercando di capire come rimettere la nostra vita su quei binari – è del tutto normale e va solo affrontato consapevolmente per quello che è. Con due precisazioni:
  • È urgente muoversi poiché il passare del tempo non gioca a nostro vantaggio;
  • Il 2019 non ritornerà e quindi sarà meglio guardare avanti anziché dallo specchietto retrovisore sapendo che si, lo stato aiuterà, ma che la parte più importante la dovremo fare noi.
Per riprendere il bandolo della matassa ecco allora una riflessione su qualche oggettivo problema che possiamo riconsiderare, in modo non convenzionale, come potenziale fattore di successo
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  1. L’innovazione Mentre l’evoluzione tecnologica accelera e diventa evidente che serve una forte spinta al cambiamento digitale per poter essere di nuovo competitivi, è altrettanto manifesta la difficoltà di essere al passo di questo necessario cambiamento a causa di una carenza strutturale di competenze innovative.
Ma questo non è necessariamente un male perché:
  • Le competenze innovative si poggiano sulle conoscenze, si formano. Il nostro paese ha ancora uno dei sistemi scolastici e formativi in genere più solidi del mondo, e quindi abbiamo tutte le carte in regola per poter costruire delle solide nuove competenze.
  • Per la realizzazione del cambiamento occorre spesso superare la presunzione di molti manager che si sentono sempre, “per definizione”, già all’altezza delle nuove sfide. Proprio per sgombrare questo deleterio pregiudizio, agli albori della rivoluzione digitale Richard Farson* aveva addirittura teorizzato l’arte del disimparare come leva necessaria per affrontare il futuro scevri da condizionamenti.
Senza arrivare a questo, possiamo però affermare che uno dei problemi principali è quello di sbarazzarsi delle barriere causate da competenze “obsolete ma non troppo”, ancora capaci di illudere le persone di essere in grado di guidare il cambiamento e l’innovazione.
E’ meglio avere la contezza di essere indietro e di aver bisogno di nuove competenze digitali per poter affrontare il cambiamento: questo genera virtuosi meccanismi di nuovo autoapprendimento, di acquisizione di nuove competenze e di cosciente spinta ad innovare in modo radicale.
Per farlo occorre certamente grande vision, intuizione e umiltà di approccio, doti con le quali si sposta la sfida su un terreno diverso, più ampio e probabilmente assai più efficace.       
 
  1. La spinta al cambiamento La storia ci insegna che spesso cambiare tutto è assai più facile che cambiare qualcosa un po’ alla volta attraverso la politica dei piccoli passi. Le persone rispettano e seguono i passi clamorosi e sono più propense ad accettare il cambiamento quando è sufficientemente importante da poter vincere ogni resistenza.
Un esempio di questa dinamica, purtroppo drammaticamente attuale, ci viene dalla segregazione razziale: nell’esercito americano il Presidente Truman la abrogò per decreto, di colpo, anche se tra risentimenti e resistenze. E ha funzionato. Nella società civile americana l’approccio graduale all’integrazione degli afroamericani non ha invece dato risultati sufficienti nemmeno dopo tre generazioni: i neri sono ancora oggi più poveri e meno pagati, anche a parità di lavoro, e in taluni stati molti di loro non riescono ad avere accesso al sistema elettorale. Nel 2020 si sentono ancora molti genitori raccomandare ai loro figli afroamericani di non correre mai per strada, perché un nero che corre è per definizione un ladro o un assassino.    
Quale migliore occasione dunque, in questo momento così critico, per far leva sulla portata storica della pandemia e sulla radicale discontinuità economica e sociale che ci portando?
Le crisi più disastrose sono sempre state motivo di grande cambiamento e di crescita, e la propensione al cambiamento nelle organizzazioni è assai più elevata proprio in questi momenti. Cinico a dirsi, ma è così. Le organizzazioni in crisi sviluppano un senso di solidarietà ed urgenza rispetto al cambiamento che permette loro di intraprendere nuove direzioni con scelte rapide e radicali, considerate improponibili in tempi “normali”.
  1. Il nuovo problem solving  Più è complesso ed articolato il sistema sociale e produttivo che va affermandosi, più è importante disporre di un elevato problem solving: competenza spesso rara anche perché poco allenata dalla burocrazia e dalla deresponsabilizzazione che ha caratterizzato il nostro paese negli ultimi anni.
Ma anche qui c’è una strada. Per recuperare terreno in fretta possiamo guardare direttamente a coloro che quei problemi li hanno generati: in termini professionali il problem creating diventa oggi la migliore soluzione per favorire il problem solving.
Non è una novità: i migliori esperti di sicurezza informatica vengono spesso da un esperienza di hacker, i più abili fabbri sono quelli che hanno alle spalle una formazione come “topi di appartamento”, i più bravi esperti di antidroga sono spesso ex ricettatori o persone che ne facevano abuso, ecc.
Ricorrere a chi sa già come fare ad uscire da un problema, in virtù delle complesse abilità acquisite sulla sua pelle, è una soluzione shock che può trovare sempre più applicazioni nel futuro. Questo proprio a fronte delle crescenti complessità delle prossime sfide e della esigenza di affidarsi ad uno specialista che come primo skill non ha la abilità analitica, ma quella di saper creare un dato problema (o di esserci trovati dentro, fa lo stesso). Nessuno meglio di lui saprà venirne fuori.
  1. La “valorizzazione “ dei nostri difetti L’inerzia di questo periodo è parte di un nostro sistema culturale che ha dei difetti con cui dobbiamo fare i conti. Senza demonizzarci troppo, come pur verrebbe da fare quando si sente che negli ospedali non c’è il disinfettante per lavarsi le mani perché i parenti dei pazienti se lo portano via (si, succede anche questo oggi).
In momenti come questi i nostri difetti (a parte quello appena citato che va stigmatizzato a prescindere) possono trasformarsi in grandi forze per agire in modo appropriato. Qualche esempio: i timorosi fanno sempre scelte molto ponderate, gli ansiosi cercano soluzioni rapide ed efficaci che li plachino, gli insicuri si impegnano a fondo per dare alle proprie azioni un carattere di eccellenza, ecc. Lo stesso Bill Gates ha recentemente affermato che dà sempre alle persone più pigre i lavori più difficili, perché troveranno sempre il modo più semplice e veloce per farlo.
L’idea è quella di far leva sui nostri difetti così come sono – che non si smontano da un giorno all’altro – trovando in essi il volano per le nostre migliori azioni. Possono essere, se utilizzati in modo mirato e consapevole, dei potenti acceleratori del cambiamento perché agiscono a complemento delle nostre doti bilanciando al meglio – specie in un contesto di gruppo – il risultato finale. 
  1. Nuove alternative alla leadership carismatica  E’ opinione diffusa che ormai non ci siano più leader trainanti ed autorevoli che sappiano guidare i prossimi percorsi di rinnovamento. Bene, ce ne facciamo una ragione (anche se a malincuore), cercando anche qui un’altra via per sopperire a questa situazione.
Tale via si trova nella leadership distribuita che appartiene ad un gruppo, nel quale i ruoli chiave sono affidati a più persone che si integrano tra loro in modo complementare: c’è il comunicatore, il visionario, il tecnico, l’innovatore, il commerciale, ecc…, ciascuno leader in determinate situazioni e gregario in altre. Se il gruppo funziona, non è utopia sostenere che il capo neanche si riconosce perché la leadership appartiene a tutti coloro che la esercitano su un determinato campo.
È la migliore soluzione? Non è detto, ma ha molti pregi e soprattutto non ha alternative.    
  1. La rivalutazione dei paradigmi considerati “ovvi E’ forse il più solido dei punti fermi di cui disponiamo: niente è più invisibile dell’ovvio, di ciò che diamo per scontato, che quando ci viene messo sotto gli occhi guardiamo con distacco perché già detto, già noto, già acquisito (nelle slide). Ma siccome in natura nulla si crea e nulla si distrugge, finché le cose note non vengono realizzate restano solo … cose note.
Forse qualcuno ha avuto proprio questa impressione nel leggere queste righe. Su un altro piano molto più autorevole, il contributo del task force guidata da Vittorio Colao per il rilancio del paese è stato tacciato di ovvietà quando ha espresso la necessità di digitalizzazione, sburocratizzazione, innovazione, ecc. Tutte cose note e “ovvie” per molti: peccato che non se n’è fatta una, e che proprio per questi motivi il nostro paese è tra i fanalini di coda dell’Europa.
Non c’è sfida più potente, in questo momento, che quella della scoperta delle strade considerate ovvie ma nei fatti non praticate. Le migliori strategie su cui puntare nel breve saranno probabilmente il prodotto d’un modo nuovo di guardare a ciò che è sotto gli occhi di tutti ma che nessuno vede perché “dato per scontato”. Questo approccio apparentemente semplice può riservarci molte positive sorprese, se gestito consapevolmente con curiosità ed umiltà.   
 
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Approcci analoghi possono essere mutuati su molti altri terreni dove le difficoltà oggettive ci sembrano insormontabili: a prescindere dalla solidità delle relative soluzioni, se questo metodo funziona vivremo con maggiore semplicità ed efficacia i mesi che abbiamo davanti.
Con le prossime azioni ci troveremo a spendere i soldi dei nostri figli, facciamolo bene. 
 
Filippo Antilici de Martini di Valle Aperta
 
*Richard Farson, Il management per paradossi – modelli di leadership del XXI secolo, Franco Angeli
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