Le due motivazioni alla base del conflitto in Ucraina
Trovare un unico movente a un conflitto lungo e complesso come quello che intercorre, ormai da otto anni, tra Russia e Ucraina, è certamente un errore. Tuttavia, l’analisi della crisi può ricondurci a due macroaree tematiche, necessarie al fine di comprendere le reali motivazioni di uno scontro che mai come adesso aveva attirato l’attenzione dell’opinione pubblica europea e internazionale.
La “neutralizzazione” dell’Ucraina
Prima di fare qualsiasi considerazione sulle mire espansionistiche di Vladimir Putin, presidente della Federazione Russa dal 7 maggio 2012 e oggi nel corso del suo quarto mandato, ritengo di fondamentale importanza sottolineare il ruolo che l’Ucraina debba e possa rivestire nella visione dell’ex funzionario del KGB russo.
Nella disamina delle stesse parole utilizzate da Putin in questi giorni, si può desumere chiaramente l’obiettivo del leader russo di “neutralizzare” l’Ucraina. Ciò appare tutt’altro che paradossale se si fa un passo indietro fino al 2010, quando il presidente dell’Ucraina era Viktor Janukovyc. Filorusso e originario di Donetsk, egli frenò duramente, durante il suo mandato di quattro anni, il processo di “europeizzazione” e “occidentalizzazione” dell’Ucraina.
Paradossalmente, con la sua Ucraina “cuscinetto” tra Mosca e Occidente, lontana parente dal Paese che oggi, con il suo presidente Volodymyr Zelensky, richiede a gran voce l’adesione a NATO e UE, una crisi internazionale della portata di quella odierna risultava scongiurata sul nascere. Con la deposizione di Janukovyc, figlia di un colpo di stato dei giovani del movimento Euromaidan, la Russia di Putin ha visto infrangersi il piano di un’Ucraina neutrale (in stile finlandese).
Ricapitoliamo e facciamo il punto della situazione. Un’area ricca di risorse come l’Ucraina e da sempre contraddistinta dalla presenza di forti ingerenze russe, nella dicotomia Russia-Occidente, abbandona la propria posizione filorussa e si dirige rapidamente verso la sponda opposta. Ecco che per Putin nasce il movente, per non dire il pretesto, per dare nuova vita a un conflitto che, dallo stesso anno della deposizione di Janukovyc (2014), era nell’aria. Dichiarare l’indipendenza delle repubbliche popolari filorusse di Donetsk e Lugansk, tagliando pertanto una grossa fetta di risorse economiche dalla disponibilità ucraina, risulta, nelle mire del leader russo, un modo per rendere il Paese necessariamente dipendente dagli aiuti esterni e meno appetibile per l’Occidente.
L’importanza economica del Donbass
La crisi internazionale a cui stiamo assistendo, della quale in pochi ad oggi sono in grado di prevedere l’epilogo, ha invece un’origine ben chiara. Essa si può fare di certo risalire alle dichiarazioni con cui Vladimir Putin coronava le mire secessionistiche delle due repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk, nella regione del Donbass, autoproclamatesi indipendenti nel 2014.
Niente di nuovo ai nostri occhi. Nello stesso 2014, anno in si può collocare l’origine delle frizioni tra Russia e Ucraina, Putin aveva operato una scelta simile in riferimento alla regione della Crimea, occupandola militarmente e sottraendola, con l’appoggio dei locali secessionisti filorussi, alla disponibilità dell’Ucraina. Anche per quanto concerne il Donbass, come nel caso della Crimea, oltre alle mire indipendentiste e filorusse della regione, rientra in gioco un tema di carattere fortemente economico. Donetsk e Lugansk, di fatto, prima del conflitto contribuivano al 30% dell’export totale dell’Ucraina, di cui ben il 22% nella stessa Russia. Si tratta dunque del motore dell’economia del Paese, fattore che le rende una variabile impossibile da sottovalutare.
È dunque ancora più chiaro come sottrarre la regione del Donbass all’Ucraina, appellandosi a un’indipendenza autoproclamata otto anni fa e mai riconosciuta a livello internazionale, significherebbe metaforicamente amputarle gli arti.