Age Management

AGE MANAGEMENT: PERCHE’ OCCUPARSENE ORA E DA DOVE COMINCIARE

Se ne parla ormai diffusamente da oltre vent’anni, ma ancora si è fatto molto in poco in concreto: tra le politiche di gestione e sviluppo delle risorse umane, quella dell’age management è stata finora relegata ai margini delle iniziative poste in essere per valorizzare le persone.

Le attenzioni sono state tutte rivolte all’inserimento e la valorizzazione dei giovani, allo sviluppo dei talenti e – nelle realtà più illuminate – ai temi della diversity.  Tutto giusto e necessario, se non fosse che nel frattempo sia diventato sempre più importante progettare e realizzare nuovi interventi strutturati rivolti ai lavoratori più maturi in termini di età anagrafica (interventi qui convenzionalmente considerati di age management, anche se quest’ultima è in realtà una branca più articolata della diversity rivolta trasversalmente a tutte le tre/quattro generazioni oggi presenti nelle aziende).

PERCHE’ OCCUPARSENE ORA

Le ragioni che impongono una nuova ribalta dell’age management, nell’accezione appena indicata, sono sotto gli occhi di tutti:

  • L’invecchiamento della popolazione[1] – con l’Italia tra le prime nella graduatoria mondiale – e l’innalzamento dell’età pensionabile hanno determinato nelle aziende un incremento lineare dell’età media dei dipendenti ed una presenza assai significativa di risorse “mature, complice anche il ridotto inserimento di giovani nel tempo[2];
  • Non è più sostenibile per nessuno gestire queste risorse mature come si è fatto finora mettendole su binari di “confort” in attesa della pensione. Si tratta di una popolazione numerosa a cui mancano ancora almeno 8-10 anni di lavoro, che pertanto dovrà essere ancora protagonista – ci piaccia o no – del futuro delle imprese;
  • Queste risorse si ritrovano ad occupare – per anzianità o merito – quasi tutte le posizioni chiave nell’organigramma aziendale, magari non di vertice ma di middle management, rappresentando quindi nei fatti la cinghia di trasmissione dei valori d’impresa;
  • Esse hanno una spiccata attitudine a porsi come leader – più o meno visibili – e opinion makers: sono loro che “fanno” il clima aziendale, loro che accolgono i più giovani imprimendone lo stile, loro che dialogano con il vertice, loro che determinano il posizionamento delle Organizzazioni Sindacali, ecc.;
  • Nelle aziende italiane la diffusione di procedure e protocolli operativi è assai limitata, nel bene e nel male di ciò, e molto è demandato alla pratica esperienziale e al problem solving di chi “sa metterci le mani”: ancora una volta sono i lavoratori più maturi a fare la differenza e a determinare nel concreto le pratiche aziendali.

Il cambiamento epocale che viviamo ci sta al momento lasciando in un grande pantano dal quale non sarà facile né rapido uscirne. Per farlo servono sicuramente energie fresche che sappiano imprimere una poderosa spinta al cambiamento, ma anche tutta la forza trainante di coloro che hanno più esperienza e sanno dare direzionalità, solidità e stabilità al percorso verso il futuro.

La complementarietà di chi spinge, i giovani, e chi tira, i “meno giovani” è indispensabile per disincagliarsi dalla “tempesta perfetta” in cui ci troviamo: da un lato, ingenti risorse europee finalmente in arrivo che serviranno solo se sapremo investirle al meglio, dall’altro, una pandemia ancora in corso che durerà non si sa quanto, una rivoluzione digitale verso l’impresa 4.0 sempre più profonda e veloce, una economia ormai alle corde, un enorme debito pubblico che prima o poi busserà di nuovo alla nostra porta,  una maggiore propensione al risparmio (di chi può) generata dall’incertezza sul futuro, e soprattutto un incremento esponenziale delle  disuguaglianze economico – sociali tra le persone.

Fattori che si sommano tra loro concentrandosi tutti in un breve periodo, dal quale non se ne esce senza un ordinato e coordinato sforzo di “push & pull”, con il ruolo “pull” delle generazioni più mature in tutta evidenza.

DA DOVE COMINCIARE

  1. La definizione del target Ragionare su un percorso strutturato di “age management” vuol dire anzitutto aver chiaro lo scenario in cui le aziende si ritroveranno tra 3/5 anni, quando la trasformazione del lavoro assumerà dimensioni talmente profonde e diffuse[3] da fare realmente la differenza.

Serve farlo ora per avere contezza di come sarà disegnato il profilo delle risorse e delle competenze che allora saranno presenti in azienda, in base alla pianificazione degli organici e prima ancora delle strategie industriali di medio periodo. Oltre è inutile andare – cambia tutto troppo velocemente per far ragionamenti che abbiano la necessaria solidità – ma, in termini opposti, basta guardare solo al domani: continuare a ragionare sul breve periodo, come spesso il management è portato a fare specie nei momenti di turbolenza, non potrà mai premiare lo sviluppo di una efficace politica del personale di prospettiva.

E serve anche avere una verosimile visione di come si evolverà il business nello stesso periodo, di quali asset diventeranno strategici e quali saranno le leve di successo che l’innovazione affermerà. Per conoscere, a ritroso, il gap tra le competenze che “balisticamente” si avranno e quello che il mercato chiederà all’impresa.

  1. Lo sviluppo di progetti di seniority per cluster Una volta individuato il target delle risorse interessate – quelle che tra 3/5 anni saranno il baricentro aziendale con ancora diverso tempo da trascorrere in azienda prima della pensione –   si tratta di dar vita ad una nuova progettualità specifica per loro.  E già questa è una notizia perché sono risorse molto spesso abbandonate al loro destino ed escluse da tutti i piani di valorizzazione interna, che accoglieranno la nuova attenzione loro rivolta prima con diffidenza, poi con stupore, infine con interesse ed entusiasmo.

Si tratta di risorse ovviamente molto diverse tra loro: c’è chi è stato valorizzato nel suo percorso professionale e chi no, chi ha dinamiche personali complesse e chi è più sereno, chi ha competenze strategiche e chi campa di rendita su quello che ha imparato 20 anni fa, chi si è seduto – sugli allori o sulle spine –  e chi continua con curiosità e coraggio a mettersi in gioco, ecc. Per (quasi) tutti vale la pena costruire progetti di nuova valorizzazione, prima che sia troppo tardi, e sarà quindi importante suddividere in cluster le risorse da coinvolgere in modo da creare percorsi mirati che partano proprio dalle persone e dalla loro condizione professionale e sociale.

Cluster che possono avere come primario obiettivo quello (assai probabile) della riqualificazione verso nuovi skill soft o hard, con particolare riferimento alle competenze digitali, quello di un nuovo ingaggio e di una ri-motivazione al lavoro, quello della creazione di piccole “navi scuola” per le competenze strategiche cui dar continuità, ecc.

L’importante è che in panchina non ci sia più nessuno e che tutti siano chiamati a scendere di nuovo in campo per mettere a terra le loro migliori attitudini a servizio degli altri e a migliorarle nuovamente.

  1. L’apprezzamento delle specifiche esigenze dei senior Due comuni denominatori ci sono sempre: anzitutto sono persone disincantante che hanno una storia, verso le quali il progetto deve dar nuova sostanza vera. Altrimenti meglio lasciar perdere in quanto si sortirebbe l’effetto contrario di demotivare quelle persone e far percepire che la considerazione nei loro confronti da parte dell’azienda è proporzionale alla scarsa qualità del progetto.

Inoltre le loro esigenze sono profondamente diverse da quelle delle altre risorse e richiedono un altro angolo visuale per coglierle appieno. Due esempi per tutti: il welfare – che probabilmente avrà come priorità l’assistenza sanitaria e la previdenza complementare più che gli asili nido – e le politiche retributive, che vengono viste come uno strumento per capitalizzare i riconoscimenti anche in ottica pensionistica: così più di premio “una tantum” queste persone ambiscono alla crescita della loro retribuzione utile al calcolo del futuro trattamento pensionistico. Certo, spesso il loro stipendio è già elevato rispetto agli altri, ma considerati i non molti anni che restano da lavorare ci si potrebbe costruire intorno un patto che genera valore per tutti.

  1. Un nuovo patto Già, un nuovo patto, perché più complessivamente di questo si tratta. L’azienda reinveste su coloro che si sentono dimenticati e chiamati a far bene il loro mestiere senza “creare problemi”, mentre la persona si (ri)mette al centro di un percorso che traina l’organizzazione verso il futuro.

Questo patto può produrre importanti impatti nella gestione delle risorse e nella job rotation, per esempio portando ad indirizzare i senior in quei ruoli che richiedono competenze ed attitudini di stabilità emotiva, autorevolezza ed esperienza come fattore critico di successo. Cosi come può generare nuove occasioni di integrazione inter-generazionale che responsabilizzino i senior a trasmettere i valori fondanti dell’organizzazione e ad essere più vicini alle risorse più giovani o diverse per mentalità o approccio al lavoro[4].

  1. Il superamento dei pregiudizi Un fenomeno da non trascurare si ha poi quando il capo è più giovane della risorsa coinvolta nei piani di age management. Lì la responsabilità è di tutti e due fino in fondo, perché se il capo non favorisce questo percorso non si può chiedere al senior che collabora con lui di mettersi in gioco abbandonando i pregiudizi tipici di chi si sente spesso ingiustamente scavalcato (il giovane capo “è presuntuoso e arrogante”, “non ne sa nulla”, “vediamo come va a sbattere e avanti il prossimo”, “se aspetta che gli levo io le castagne dal fuoco si metta comodo” e via dicendo).

Di pregiudizi, ovviamente, ce ne sono molti anche al contrario nei confronti dei senior, considerati “vecchi dentro”, “rigidi”, “poco propensi all’innovazione”, “lenti”, “testardi”, “retrogradi”, ecc. Se questo in taluni casi può risultare vero, è al contrario ormai provato da numerosi studi che con l’età si acquisiscono diversi nuovi tipi di abilità cognitive che compensano l’invecchiamento di alcune abilità fisiologiche. Quelle nuove abilità cognitive “conquistate” con il passare degli anni si sommano alle conoscenze ed alle esperienze nel frattempo consolidate, rappresentando un patrimonio di competenze imprescindibile nelle organizzazioni[5].

L’essenza del concetto di “seniority” sta tutto qui, e se viene considerata nel suo complesso porta non solo al superamento di quei pregiudizi ma anche alla vera comprensione del valore che può nascere da una politica seria di age management in termini di complementarietà con le altre competenze disponibili. Queste ultime si possono formare, comprare, plasmare; la seniority si ottiene col tempo e diventa un prezioso e raro asset per l’azienda.

  1. Una nuova cultura d’impresa Per impostare lo sviluppo di un progetto ad hoc dedicato ai senior occorre aver ben chiaro questo concetto e applicarlo con trasparenza nelle declinazioni operative del progetto stesso. A tal fine, però, serve prima di tutto una nuova cultura d’impresa inclusiva che sappia discernere ciò che vale da ciò che vale meno a prescindere dall’anagrafe e dalle esperienze, le quali non possono essere più additate come “colpa” che pregiudica il potenziale contributo del senior nell’organizzazione.

Troppo spesso non è ancora così: da una parte si riempiono slides sui valori dell’integrazione aziendale e dell’inclusione, dall’altra si perpetuano pratiche discriminatorie nei confronti dei senior, come dimostrato dalle policy aziendali che ancora oggi ne inibiscono l’accesso a ruoli manageriali e a percorsi di sviluppo.

Ecco, per trovare un punto di partenza concreto da cui muovere bisogna soffermarsi proprio sulla necessità di far propria questa cultura della seniority sgomberando il campo da quei pregiudizi senza più senso e azzerando quelle policy che di inclusivo non hanno nulla: esse sono solo il retaggio non aggiornato di vecchie politiche gestionali in cui i cinquantenni erano pochi, attempati, appesantiti da anni trascorsi (più o meno) a fare le stesse cose, e per niente allenati a gestire il cambiamento. Tutto il contrario dei cinquantenni di oggi.

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La consapevolezza di esser ormai arrivati ad un punto in cui non si può non intervenire seriamente sull’age management è abbastanza matura, ma purtroppo nel concreto è spesso superata da altre priorità tali per cui “anche quest’anno del tema se ne parla l’anno prossimo”.

Beh, la novità è che le nuove turbolenze di questo periodo non lo permettono più, ed è arrivato il momento di progettare strutturate politiche del personale dedicate ai senior che attraversino tutto il tessuto dell’organizzazione.

Per farlo serve tempo e soprattutto la convinzione di tutti: è passato il momento in cui si poteva liquidare l’age management con due interventi di lifting organizzativo sui benefit o sul welfare che potevano far pensare di aver davvero affrontato il tema.

 

Roma,  5 gennaio 2021

 

Filippo Antilici de Martini di Valle Aperta

      

 

[1] Una ricerca de Il sole-24 ore del 10 novembre 2019, basata su dati Eurostat 1990-2018, ci dice che da noi l’aspettativa di vita a 65 anni è di 22,3 anni, tra le più alte del mondo insieme a Spagna, Francia, Giappone e Corea.

[2] Negli ultimi 15 anni il numero di lavoratori con più di 50 anni è passato da 20% al 38% rispetto al totale degli occupati. Fonte: il Sole24ore, 14 maggio 2020, Sara Carnazza. Secondo uno studio di Federmanager di fine 2019, solo tra il 2014 e il 2018 la popolazione nazionale degli over 50 è cresciuta di 913.000 unità.

[3] Il World Economic Forum ha stimato che “nel 2025, 85 milioni di posti di lavoro potrebbero essere sostituiti da un cambiamento nella divisione del lavoro tra uomo e macchina”, ma che “97 milioni” di nuove posizioni, più adatte “alla nuova divisione del lavoro tra esseri umani, macchine e algoritmi”, potranno essere create, soprattutto in ambito tecnologico

[4] Alessia Samarra, Silvia Profili, La diversità di età nei contesti di lavoro- Sfide organizzative e implicazioni per il people management, Prefazione di Gabriele Gabrielli, Francoangeli, Milano, 2017

[5] Un tipico esempio di questa dinamica è stata studiata dallo psicologo britannico Raymond Cattell, che nei primi anni Quaranta introdusse i concetti di intelligenza fluidacristallizzata. Cattell ha definito l’intelligenza fluida come la capacità di ragionare, analizzare e risolvere nuovi problemi, ciò che comunemente pensiamo come pura potenza intellettuale. Gli innovatori hanno tipicamente un’abbondanza di intelligenza fluida. È più alto relativamente all’inizio dell’età adulta e diminuisce a partire dai 30 e 40 anni. Questo è il motivo per cui gli imprenditori tecnologici, ad esempio, fanno così bene così presto e perché le persone anziane hanno molte più difficoltà a innovare.

 L’intelligenza cristallizzata, al contrario, è la capacità di utilizzare la conoscenza acquisita in passato. È l’essenza della saggezza. Poiché l’intelligenza cristallizzata si basa su un accumulo di conoscenze, tende ad aumentare durante i 40 anni e non diminuisce fino a tarda età.

Le carriere che si basano principalmente sull’intelligenza fluida tendono a raggiungere il picco presto, mentre quelle che utilizzano un’intelligenza più cristallizzata raggiungono il picco più tardi.

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