Confrontarsi con i sindacati in azienda: come cambia il modello

L’evoluzione del ruolo di esperto in relazioni sindacali

Sedersi al tavolo per dialogare con le organizzazioni sindacali sarà sempre meno uno specifico mestiere a sé stante.

L’interdipendenza tra le attività core business e quelle di relazione con i principali stakeholder è tale per cui la strategia industriale dell’impresa richiede di essere declinata in termini unitari sia sul piano operativo che su quello sindacale. Questi due “piani” sono a loro volta intrecciati poiché, se è vero che tutto si può fare a prescindere dal consenso delle persone, un piano d’impresa non condiviso con le rappresentanze dei lavoratori rischia nell’ordine di non esser compreso, di cadere in un “Vietnam applicativo”, di dover essere rimodulato, ovvero di fallire.

Ecco dunque che sempre più spesso saranno i decisori aziendali ad essere protagonisti nelle relazioni industriali e non più – come accadeva negli anni ’70 – gli specialisti delle relazioni sindacali che passavano il tempo a tessere trame negoziali centrate sulla normativa del lavoro, in certa misura “parallele” alla vita aziendale ed ai suoi prioritari obiettivi di business.

Se nelle imprese di piccole e medie dimensioni talvolta è già così, in quelle più grandi l’evoluzione dovrà certamente misurarsi con volumi di attività tali da richiedere la presenza di qualcuno che si occupa di relazioni sindacali, ma questo in modo assai diverso da come culturalmente è concepito oggi.

Resta, va detto, un tema di competenze specifiche da salvaguardare, che non possono essere sempre appaltate ai legali del lavoro esterni o alle associazioni dei datori di lavoro. Sarà questo trade-off di competenze a qualificare l’evoluzione del ruolo di “addetto alle relazioni sindacali” ed il suo valore rispetto al servizio “comprato” all’esterno: né negoziatori puri, dunque, né semplici anelli di congiunzione tra i problemi d’impresa e il professionista esterno che gestisce in “service” quei problemi.

Questa tendenza è corroborata dalla crescente complessità delle imprese e dalla connessa esigenza di affrontare la discussione con i sindacati con la massima conoscenza e padronanza della materia in esame: i temi del lavoro post-pandemia che si affacciano all’orizzonte richiederanno tutti una centratura industriale molto circostanziata e contestualizzata, indispensabile per indirizzare il confronto su binari concreti di consapevolezza comune tra le parti sociali rispetto ai reali problemi ed alle possibili soluzioni.

 

Il nuovo ruolo ibrido del decisore aziendale sulle relazioni sindacali

Fin qui tutto facile. Che sia il capo azienda o il capo del personale, l’innalzamento del livello di confronto è senz’altro una opportunità imperdibile per accrescere la qualità della relazione con i sindacati ed i relativi risultati, ma c’è un problema: spesso proprio quei manager “snobbano” le relazioni sindacali, quantomeno perché sono presi da temi strategici assai rilevanti per il presente e il futuro dell’impresa che non permettono distrazioni né di pensiero né di agenda. E allora rischia di ripartire il meccanismo della delega, che come la tela di penelope riporta al vecchio esperto di relazioni sindacali che gestisce rapporti. Con una grande differenza rispetto a prima: oggi la delega del vertice è circoscritta alle questioni più ordinarie, e ciò diventa un problema di legittimazione ed autonomia del tavolo sindacale che si riflette sull’autorevolezza di chi rappresenta l’azienda e sulla qualità dei negoziati. Questi ultimi rischierebbero di affrontare solo le “solite questioni” senza alcun salto di qualità, ovvero di essere eterodiretti dal vertice aziendale in modo improprio e confusionario.

Spezzare questo circolo vizioso diventa allora una necessità che parte da un cambiamento culturale e di posizionamento strategico del management, il quale deve acquisire la consapevolezza del suo decisivo ruolo di indirizzo delle politiche aziendali ad impatto sul personale.

Il tempo poi si trova: certo ben al di là dei vecchi riti celebrati dalle più tradizionali relazioni industriali, che facevano accordi quasi sempre di notte per dar evidenza pubblica del loro impegno negoziale senza limiti.

Una volta smarcato questo punto non proprio banale, si pone il tema di come il decisore aziendale riuscirà ad affrontare al meglio il confronto sindacale senza essere allenato a farlo in modo specifico. Si può dare per assodato che chi ricopre un ruolo strategico abbia per definizione le capacità per dialogare efficacemente con tutti; bisogna però anche dire che i sindacati sono diversi da “tutti” gli altri interlocutori, e richiedono un approccio e un attenzione altrettanto diversa. Misurarsi con loro in modo innovativo e proficuo richiede alcune accortezze di metodo, di seguito richiamate per punti.

 

Spunti per costruire un nuovo negoziato sindacale di qualita’

Poca tattica anzitutto. Andare subito al cuore dei problemi senza avvicinamenti graduali che defocalizzano la discussione, né chiedere 100 per avere 10. Non è più il momento di dar lustro a questi giochi di ruolo.

Comunicare la vision d’impresa. E’ il vero valore aggiunto che permette di avere un quadro comune di alto livello sulla direzione verso cui l’impresa è orientata. Aiuta a superare diffidenze e a costruire le basi per un consapevole negoziato in cui le persone sono al centro del confronto in quanto parte determinante del piano industriale in discussione.

Credibilità e coerenza. Se sono valori importanti in tutte le relazioni, per quelle con i sindacati assumono un significato fondante della necessaria fiducia che porta ad un accordo. Senza quei valori magari si riuscirà pure a chiudere un negoziato, ma sarà il primo e anche l’ultimo.

Rispetto per gli interlocutori.  I quali non sono collaboratori a cui dare indicazioni, ma rappresentanti delle esigenze e delle preoccupazioni che manifestano i lavoratori dell’impresa. Poi potranno essere più o meno qualificati, ma siccome nessuno se li può scegliere meritano di essere rispettati “a prescindere” per il loro ruolo.

Il necessario linguaggio comune. Molto più di quanto può pensarsi, nascono incomprensioni dal fatto che si parlano linguaggi diversi: più stereotipato lato sindacale e più “strutturato” lato manageriale. È il manager a dover cambiare registro, nell’obiettivo di farsi capire dagli interlocutori sindacali, anche quelli più operativi, e per tale via confrontarsi con loro dando adeguata chiarezza al merito degli argomenti trattati.

L’ascolto. Non è solo una questione di rispetto o di educazione, ma l’unico modo per capire fino in fondo da parte degli interlocutori sindacali la loro posizione e quello che c’è dietro, visto che sono latori di priorità rappresentate da altri. Siccome questo dell’ascolto non è sempre lo sport più praticato dai manager attuali, serve uno sforzo in più da parte loro affinché si possano mettere a fuoco le reali situazioni in gioco sul versante dei lavoratori e di conseguenza trovare per esse – con la necessaria flessibilità – le misure più appropriate, compatibili e sostenibili.

Democrazia e pluralità di rappresentanza. Non è questione rituale ma di sostanza: le parti presenti al tavolo non sempre hanno le stesse identiche posizioni e richiedono di essere considerate ognuna per quello che è e per ciò che rappresenta. Poi arriverà il momento di trovare una sintesi, ma solo dopo che si è considerata e compresa la posizione di ciascun interlocutore nella sua espressione rappresentativa dei lavoratori dai quali ha ricevuto mandato.

No agli scoop. È spesso fondamentale preparare bene il terreno dell’incontro, affinché sia chiaro a tutti di cosa si parla e in che termini. A meno che non ci sia un voluto “effetto annuncio”, che talvolta può far parte del percorso necessario, in generale è opportuno evitare che gli incontri contengano sorprese completamente fuori dalle aspettative sindacali. Ciò renderebbe infruttuoso l’incontro stesso e incrinerebbe il rapporto di fiducia spaesando e irritando gli interlocutori. Se ci sono questioni rilevanti, meglio anticiparle informalmente e concordare fuori del tavolo come gestire il metodo prima ancora che il merito.

No ai temi “politici”. Per quanto strettamente intrecciati con gli argomenti sindacali e sociali di particolare rilevanza, lasciare fuori i temi politici dal tavolo negoziale permetterà di concentrarsi in modo più proficuo sull’oggetto della negoziazione, evitando voli pindarici e soprattutto prese di posizione pregiudiziali.

Coinvolgere infine gli interlocutori sindacali il giusto. Né troppo – siamo lontani da modelli di compartecipazione sindacale all’impresa rispetto ai quali Confindustria dice “ne parliamo tra 40 anni” – ma nemmeno troppo poco: coinvolgere le parti sociali sulle dinamiche di mercato, di business e di sviluppo / crisi dell’impresa è fondamentale per far sentire tutti gli attori sindacali parte di un progetto industriale e non chiamati “on demand” quando c’è il problema. Non lo fa quasi nessuno ancora, ma è probabilmente la migliore leva per vincere possibili resistenze di ruolo; resistenze che oggi ancora vengono alimentate dalla modalità spesso rituali con cui ci si rapporta con le Organizzazioni sindacali, il cui contributo partecipativo alle dinamiche d’impresa – sempre nel rispetto del loro mandato – deve evolvere di pari passo al salto di qualità loro richiesto.            

 

Il necessario superamento del gioco delle parti

Al centro di tutto c’è la tutela del “lavoro”, nella sua accezione più nobile. E’ questo un interesse comune:

  • Alle imprese, talvolta è vero alle prese con “scorciatoie”, ma sempre più spesso consapevoli del determinante valore che hanno le persone per le sorti del loro progetto industriale, e  conseguentemente attente alla necessità che qualsiasi soluzione – anche drastica nel breve termine – sia sempre finalizzata a reinvestire sulla componente lavoro e quindi sul futuro dell’impresa stessa;
  • E alle Organizzazioni dei lavoratori, chiamate ad anteporre il bene comune futuro “di tutti” più che a difendere le prerogative di qualcuno, magari proprio il “dante causa” della delega sindacale. Questo “qualcuno”, infatti, è proprio quello che deve a sua volta a cambiare per primo “insieme” al lavoro e all’impresa, rinunciando a qualcosa oggi per averlo restituito con gli interessi domani.

 

 

Questo interesse comune delle parti può, se gestito consapevolmente, diventare la chiave di volta per indirizzare percorsi e soluzioni verso il bene collettivo sostenibile.

Servono umiltà e coraggio, sia nell’esporsi a raccontare le cose come stanno ed acquisire così una reale comune consapevolezza della situazione, sia nel prendersi delle responsabilità che risultano talvolta impopolari nel breve ma sono indispensabili per far ripartire in modo organico il lavoro e l’impresa.

E serve una nuova progettualità dell’intero sistema di relazioni industriali, chiamato a concertare soluzioni articolate che, anche passando per curve tortuose, trovano sbocchi di lungo periodo in cui il capitale delle persone viene aggiornato, rafforzato e valorizzato per come il cambiamento lo ha saputo rigenerare.

Il contradditorio tra le parti – da sempre caratteristico del modello di relazioni industriali – si incastra alla perfezione in questa centralità del bene comune, perché di contradditorio all’interno delle imprese ce n’è sempre meno e quindi quello che scaturisce dal confronto sindacale assume una nuova rilevanza, andando a qualificarsi come un baluardo rispetto a possibili scelte unilaterali da parte dell’impresa. Ci si riferisce ovviamente ad un nuovo contraddittorio, in cui ciascuna parte con matura responsabilità contribuisce nel merito alle soluzioni “per il lavoro” aggiungendo valore al tavolo negoziale e non solo difendendo “a priori” la propria posizione iniziale su cui ha costruito il piano industriale, nel caso dell’impresa, o ha ricevuto la delega dagli iscritti, nel caso dei sindacati.

 

Le prossime sfide come primo banco di prova

Siamo alle prese con una drammatica evoluzione del lavoro e dell’economia, non ancora giunta al suo momento più critico: saltano attività e professioni da un giorno all’altro, cambiano le priorità sociali e dei consumatori, e soprattutto si conservano i posti di lavoro nelle imprese solo “per legge” in virtù del divieto di licenziare. Per far fronte alle esigenze di breve degli imprenditori sono stati anche attivati onerosissimi interventi assistenziali di ristoro (“cash” e di cassa integrazione), che hanno portato a spendere in pochi mesi cifre che non potremo più permetterci.

Ci sono al contempo prospettive molto concrete di nuovi ingenti investimenti resi disponibili dall’Europa, che possono rilanciare importanti opportunità di crescita per tutti a partire dalle nuove competenze, dai giovani, dalla trasformazione del lavoro e dal rilancio economico delle attività professionali/imprenditoriali.

E’ un’occasione da non perdere – lo sanno anche i muri – e perché ciò accada il modello di relazioni sindacali dovrà mostrare tutta la sua capacità di dar risposte veloci, concrete e nuove, liberandosi dalla difesa ad oltranza di vecchi schemi: certo, il “divieto di licenziare per legge” potrà esser prorogato, ma è altrettanto certo che non è questa la risposta che dà futuro alle persone e alle imprese.

Questo nuovo modello di relazioni sindacali, con al centro il lavoro, non ha tempo di essere sperimentato perché deve muoversi da subito con la stessa discontinuità generata dagli eventi dell’ultimo anno.

Non si può rispondere a problemi nuovi con modelli vecchi, perché i risultati porterebbero a devastanti repliche di interventi assistenziali difensivi. Servono ora soluzioni capaci di limitare i danni in difesa e nel contempo di ricostruire l’attacco, in modo da spostare in avanti il baricentro delle azioni.

Che poi è il significato più profondo delle nuove politiche attive del lavoro, mai come oggi necessarie per il nostro futuro e dunque da costruire bene con il contributo di tutti gli attori sociali.

 

Roma, 16 febbraio 2021

Filippo Antilici de Martini di Valle Aperta

      

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